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Religione

L’Islam, ovvero la impossibile dialettica tra legge divina e legge umana

di Pasquale Hamel
2 Aprile 2017

“Non può esistere un Islam moderato da contrapporre ad un Islam estremista”, questa apodittica affermazione di Paolo la ritroviamo nella parte del volume “Occidente senza utopie”, casa editrice Il Mulino di Bologna, scritto dal grande storico bolognese insieme al filosofo Massimo Cacciari. Naturalmente, isolata dal contesto in cui viene rilanciata, può essere equivocata e prestarsi, come spesso accade nel nostro tempo, ad essere manipolata in termini ideologici. In realtà Prodi parte da una analisi molto raffinata del significato che l’Islam ha assunto nella storia delle civiltà e soprattutto nel contesto dell’evoluzione dello stesso cristianesimo. Lo storico, guardando alla storia della civiltà occidentale, evidenzia il valore rivoluzionario dell’incarnazione della parole, il significato cioè di quell’incipit del Vangelo di Giovanni che recita et verbum caro factum es (e il Verbo si fece carne). In poche parole, l’ingresso della Verbo nella storia con le conseguenze che questo determina in termine di naturale evoluzione ma, anche, di corruzione e decadenza. E’, in pratica, il recupero dell’umanità del sacro, la sua declinazione nel tempo e non la sovrapposizione al tempo. Questo fatto rivoluzionario, la cui evidenza spesso sfugge al superficiale lettore delle vicende culturali, non poteva però essere unanimemente accettato, doveva trovare in quelle concezioni monolitiche che fanno del sacro la giustificazione delle istituzionalizzazione. Proprio l’Islam del VII secolo è, in questo senso la risposta più evidente di questa resistenza. Nell’Islam l’incarnazione non avviene, nel saccheggio dei testi testamentari che a piene mani i redattori fanno, emerge la necessità di una rilettura degli stessi in chiave di contrapposizione al Verbo che si innesta nella storia. Ecco perché, scrive Prodi, il Gesù dell’evangelo non può che essere un profeta, e lo stesso Maometto subisce uno sdoppiamento, da un lato egli è il profeta ma dall’altro è il Corano, la parola immobile fissata una volta e per tutto alò di fuori dal tempo e dalla storia. Per Prodi, l’inapplicabilità dei metodi critici-esegetici, “che nel mondo ebraico-cristiano con fatica si è imparato ad applicare nel corso dei secoli alla Bibbia”, non è solo un problema di rifiuto in quanto considerati testi sacrali,  ma è soprattutto un problema teologico che è la sostanza stessa dell’Islam, appunto quello della non incarnazione della Parola, della rinuncia aprioristica alle conseguenze del degrado e della corruzione che la storia stessa impone. E’ dunque normale che l’Islam si definisca “un’altra religione”, una religione senza una Chiesa. Scrive Prodi che “la negazione da parte dell’Islam (moderato e no) della Chiesa come profezia istituzionalizzata rende impossibile la dialettica fra legge divina e legge umana, tra il potere politico e il potere sacrale e mette in discussione la laicità come conquista storica del cristianesimo occidentale nel momento in cui il trascendente scompare all’orizzonte e si forma un nuovo monopolio globale del potere economico-politico”.  Riflessione profonda che la superficialità del dibattito in corso, fatto di frasi forti e infarcito dal cumulo di luoghi comuni del politically correct, del quale è componente forte la minaccia viepiù ripetuta  di essere genericamente additati come islamofobi, non aiuta ad approfondire.

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