Scuola

La scuola e la visione aziendale della vita

Tre studenti che rifiutano di sostenere l’orale degli esami di Stato. E gli adulti che spiegano loro cos’è la vita.

12 Luglio 2025

Tre studenti si sono rifiutati di sostenere l’orale degli Esami di Stato. Tre studenti su 524.415: una proporzione che dovrebbe scoraggiare chiunque volesse farne un caso. E invece è uno dei temi caldi dell’estate. Ed è naturalmente un bene che sia così: di scuola, e di esami di Stato, è urgente parlare. O meglio: sarebbe urgente parlarne in modo attento, critico, anche con qualche coraggio. Parlarne in modo leggere e irresponsabile – ed è quello che accade, ancora una volta – non fa che aggravare la malattia di una istituzione che ha sempre più i tratti di un malato grave che si rifiuta di accettare la diagnosi e di avviare le terapie.

Sono pochi gli interventi che in questi giorni abbiano preso in considerazione davvero le motivazioni di quegli studenti. Pochi, cioè, hanno visto in quella scelta l’occasione, rara, di far partecipare anche gli studenti a un discorso pubblico sulla scuola che passa costantemente sopra di loro. Di scuola parlano tutti, per lo più ostentando un certo disprezzo della pedagogia e delle scienze dell’educazione; manca la voce di chi è ogni giorno per cinque ore seduto dietro a un banco. Le reazioni degli adulti sembrano dire una cosa chiara: gli studenti non devono parlare. Stiano zitti e buoni. Lascino fare ai grandi.

C’è chi dice che si tratta di studenti furbi, che si sono fatti per bene i loro conti e hanno capito che era meno faticoso portare a casa il risultato senza sottoporsi a una prova faticosa. Qualche altro assicura che sono studenti con alle spalle famiglie facoltose, che possono permettersi quindi di uscire dalla scuola superiore con un voto basso, tanto poi ci pensano i genitori a sistemarli. Altri ancora sono certi che hanno agito per seguire una moda: e sfugge davvero come si possa parlare di moda per una scelta che riguarda meno di cinque studenti su più di cinquecentomila. Sono reazioni che rientrano in quella fallacia logica che si chiama argumentum ad hominem: non si prende in considerazione l’argomento dell’altro, ma lo si squalifica.

Non è difficile squalificare un adolescente. Viviamo in una società nella quale chiunque si allontani dal mondo adulto ha uno status sociale bassissimo. I bambini non sono, a dirla tutta, nemmeno persone, come dimostra il fatto che possono essere impunemente schiaffeggiati, e non manca chi afferma le grandi virtù pedagogiche del ceffone; nessun adulto può essere schiaffeggiato, in nessun caso, senza che la cosa abbia conseguenze penali. L’integrità corporea è uno dei diritti fondamentali, ma pare che non valga per i bambini. Il childism, su cui ha appena pubblicato un bel libro Maura Tripi (Non chiamateli bambini, Ledizioni) non è cosa diversa dal sessismo, dal razzismo e dall’abilismo. Ma hanno uno status sociale insignificante anche gli adolescenti, come dimostra il discorso pubblico su di loro: costantemente ridicolizzati, ritratti in modo grottesco, con un costante ricorso a una generalizzazione che, se fosse applicata agli adulti, porterebbe a conclusioni ben più drammatiche – non saremmo, noi adulti, forse tutti assassini, corrotti e mafiosi? E all’altro estremo ci sono gli anziani. Hanno uno status sociale tutti coloro che sono al di fuori del ciclo produttivo, perché non vi sono ancora entrati o perché ne sono usciti.

Quegli adulti che non si limitano a squalificarli, si premurano di spiegare a questi studenti che le cose non vanno come vorrebbero loro. L’ineffabile Massimo Gramellini spiega a Maddalena Bianchi, che ha denunciato la miseria di una scuola preoccupata solo dei voti, che deve abituarsi, “perché all’università sarà uguale e sul lavoro anche peggio”. E assicura: “La vita, purtroppo, funziona così”.

La parola vita è una di quelle che sul vocabolario contrassegnerei con una sorta di avviso: “Attenzione: usare con cautela!”. Perché è una di quelle parole che vogliono dire tutto e il contrario di tutto e che usiamo per costruire frasi che sembrano risolutive e invece non fanno che impacciare il pensiero e rendere più difficile la soluzione dei problemi. La vita è una scatola nella quale possiamo mettere tante cose; o meglio: una scatola piena di tante cose diverse: e quello che scegliamo di prendere dice chi siamo.

A quanto pare molti adulti in quella scatola scelgono di prendere una cosa sola: la competizione, la corsa a ostacoli. Questa è la vita per gli adulti che fanno la morale agli studenti. Per questa vita la scuola dovrebbe preparare. La scuola non conta per la conoscenza, per la bellezza, per la creatività. No: la scuola serve per imparare la dinamica di fondo della vita, che è essere sempre disposti a saltare l’ostacolo. E sembra di capire che allora la bellezza di un sonetto di Petrarca è irrilevante, giusto un pretesto per abituare ad altro. E l’esame di Stato potrebbe essere sostituito con qualsiasi altra prova faticosa e umiliante, che abbia l’unico scopo di accertare la disponibilità dello studente di sottoporsi a una prova faticosa e umiliante, quale preparazione alla vita.

Qualche anno fa Mark Fisher ci spiegò in Realismo capitalista che siamo talmente immersi nel capitalismo che non riusciamo a vedere nulla al di fuori di esso. Il capitalismo è diventato la realtà stessa. E non sarebbe poi un gran male, se il capitalismo fosse una buona realtà. Ma nella realtà capitalista le persone soffrono di depressione. Ne soffriva lo stesso Fisher, che si è tolto la vita nel 2017.

Abbiamo, a quanto pare, un problema più grave dei pochi studenti che rifiutano l’orale dell’esame di Stato. La vita per noi è il mondo del lavoro. E non qualsiasi mondo del lavoro – esistono molti mondi del lavoro, più o meno creativi, più o meno liberi, più o meno felici – ma un mondo del lavoro caratterizzato da alienazione, competitività e gerarchia. La vita è l’Azienda. Ed è questo che vorremmo insegnare ai nostri giovani. È a questo mondo, a questa vita che vogliamo prepararli. La cosa preoccupante non è che tre studenti si ribellino. A preoccupare è il fatto che siano così pochi, a ribellarsi.

Foto di Patrick su Unsplash

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