Perché e come, nel 2017, va fatto un nuovo stadio (se proprio si deve)

27 Febbraio 2017

 

Tra le vicende che più stanno occupando i media italiana c’è quella relativa al nuovo stadio della Roma, pensato per essere costruito a Tor di Valle.

Non scriverò di come molti, tra cui tanti abitanti di Roma così come estranei alla cosa, hanno lanciato un tweet su #famolastadio aggiungendosi al Sindaco Raggi, al Pupone Totti, e a tutti coloro, famosi o meno che hanno voluto esprimere un mini pensiero digitale. Con risultati, come spesso accade sui social media esilaranti quando non offensivi o di denuncia. E dove ognuno ha la sua verità o post verità. Fatti sostanziali, nessuno. Tenuto conto della questione in essere.

Non discuterò qui dell’architettura dello stadio e dei servizi annessi. Liquidandola semplicemente come pessima, almeno da quello che si vede dai render. Nessun confronto è possibile con uno degli stadi più belli realizzati negli ultimi cinque anni. Quello di Bordeaux, progettato da Herzog & De Meuron.

Come non scriverò circa la possibilità di esplorare da parte del Comune, dei committenti e del progettista – se proprio si deve fare a Tor di valle – un’ attenta opera di ricondizionamento urbano a partire magari dall’ippodromo esistente. Che potrebbe integrarsi nel progetto, rimarcando il flusso di continuità storica con le Olimpiadi del 1960, che vuoi o non vuoi furono le prime e uniche ospitate dal nostro paese in un periodo in cui tutto pareva possibile, e sopratutto rimarcando e non distruggendo un perno dell’identità del luogo.

Se questo non è stato possibile, nemmeno dopo le ultime revisioni del progetto con l’eliminazione delle torri di Libeskind, eliminazione che lo aiuterà dal punto di vista professionale, dato che non le avrà sulla coscienza, a quel punto le torri si potevano tenere. Un nuovo landmark peri urbano e volumi densi di superfici a svantaggio dello “sprawl” cioè del “distendersi urbano” di cemento e infrastrutture nel paesaggio.

Così, mentre ero immerso in questo flusso di informazioni e mi addentravo nei meandri della questione ho cominciato a pormi, da architetto, una domanda. Ma perché oggi nel 2017 si dovrebbe costruire un nuovo stadio? Perché la AS Roma non potrebbe, come Milan ed Inter sembra siano intenzionate a fare, attualizzare l’esistente Olimpico. Simbolo e vera anima calcistica della capitale assieme al Flaminio, oggi totalmente in disuso? Qual è lo spirito con qui oggi si affronta la costruzione di un’opera del genere?

E’ una domanda che mi ha messo – per quanto possibile – a disagio. Non vivo nel mondo delle nuvole, e la risposta più semplice, quindi vera me l’aveva già data Tom Barrack, multimiliardario proprietario del Paris Saint Germain.

Però mi ha fatto tornare alla mente quando, bambino, con mio padre andavo a vedere le partite della squadra della mia città. In uno stadio completamente immerso nel tessuto urbano. Facilmente raggiungibile a piedi, in bici e con i mezzi pubblici. Come lo stadio della città in cui vivo oggi. Tra l’altro uno dei più begli impianti esistenti in Italia, e per questo intoccabile. L’Artemio Franchi di Firenze. Opera di Pier Luigi Nervi.

Il ricordo e il presente che intrecciandosi alla domanda mi portavano ad altre riflessioni. Allora lo stadio era “Lo stadio”. Esisteva di per sé stesso. Esisteva per la città oltre che per la squadra. Esisteva per i cittadini. Era un accentratore e dissipatore di energie, la cui escalation in violenza è relativamente recente, se tra il 1963 della morte di Giuseppe Plaitano e il 1979 e la morte di Vincenzo Paparelli passano 16 anni, mentre dal 1984 al 2014 si contano venti vittime, una ogni anno e mezzo.

Lo stadio era un “catino sociale”, uno spazio collettivo di aggregazione urbana. Un luogo di cultura in cui, forse, lo spettatore riusciva ancora ad immedesimarsi – per quanto possibile – nei calciatori. Catini sociali, spesso realizzati in luoghi non necessariamente distanti dal centro consolidato, il cui valore fondiario era relativamente alto. Ma si facevano, con l’idea di realizzare una “infrastruttura cittadina”. Lo stadio era della città.

La realtà di oggi è ben diversa come tutti possiamo osservare. Lo stadio non è più un luogo per cittadini. Ma quello di alcune tribù che devono avere il proprio territorio, marcato e chiuso. Inaccessibile agli altri ed epicentro del loro villaggio. Un luogo dove rinchiudersi per incitare i propri idoli o vedere i propri leader fare affari nelle sky rooms. O dove si possono innescare anche delle guerre. Come scordare lo stadio Maksimir, di Zagabria, dove nel 1990 si scateno la prima azione di guerriglia tra Serbi e Croati. Uno degli episodi significativi per lo scoppio della guerra nei Balcani.

Inoltre, anche se dovremmo saperlo, lo stadio – e il nuovo stadio come tutti i nuovi stadi che le società agognano di costruire non sono esenti da ciò – è solo un “anchor”. E qui la perdita del significato sociale dello stadio è definitivamente compiuta. Un’ancora. Necessaria all’imprenditore privato (Pallotta e Parnasi in questo caso) per fare guadagno. Come scritto da un amico, architetto pure lui in uno studio internazionale di Hong Kong, durante uno scambio privato su FB mentre affrontavamo la questione: “Pensate che con i soldi dei biglietti ci si ripagheranno mai l’investimento? Lo stadio serve ad attrarre la gente e di conseguenza far salire il valore degli affitti, esattamente come gli Apple stores, gli H&M e gli Starbucks nei centri commerciali (che infatti non pagano praticamente mai l’affitto al landlord nei primi 5 anni). Dimenticate il concetto di opera pubblica per stadi, teatri, stazioni , scuole università e anche intere porzioni di città. Anche l’investimento pubblico nella TAV fatto in questo modo negli ultimi anni punta solo alla privatizzazione, come successo con autostrade. È praticamente quello che facciamo ogni giorno qui in Cina, solo con un governo “molto stabile” ed affidabile agli occhi dei mercati”.

Ecco questo è nella post metropoli contemporanea di oggi il ruolo dello stadio. Dimenticate ogni passione calcistica e ancor più ogni visione urbana e sociale.

Lo stadio – in una legislazione come quella italiana per cui non verrà costruito in concessione per 99 anni come accade per tutti gli stadi inglesi, cui fa seguito il rinnovo della concessione – è puro volume che imprenditori privati usano per fare guadagni, portando nella sua “pancia” – attraverso viali commerciali – la passione della tribù. Non penso che il Sig. James Pallotta da Boston sia appassionato alla Roma quanto lo poteva essere, che so, un Moratti per l’Inter. E sono certo che finita l’operazione in poco tempo si disfarà della AS Roma, a quel punto appetibile. E se l’operazione non andasse in porto se ne disfarà anche prima.

Il calcio e la passione sono solo un tramite per una speculazione. E il suo spazio “pubblico” lo stadio e divenuto totalmente privato come teorizzato da Patrick Schumaker. L’erede – almeno nella gestione dello studio – di Zaha Hadid.

Fossimo stati in presenza di una visione urbana non supinamente subita dal privato – in questo Roma è da molti decenni il paradiso dei palazzinari – si tornerebbe ad una vera pianificazione di lungo periodo. Tor di Valle è la più grande variante urbanistica mai attuata nella Capitale: se ci fosse una qualche legge sulla qualità dell’architettura, anche un’opera come uno “stadio non stadio” potrebbe tramutarsi in una vera opportunità, mentre il nuovo stadio della Roma architettonicamente non ha alcun valore di ricerca sociale, urbana e architettonica. Proprio ciò di cui, invece, c’è più bisogno.

TAG: Luca Parnasi, Roma, Stadio della Roma
CAT: Architettura e urbanistica, Roma

3 Commenti

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  1. emilpnz 7 anni fa

    Forse se ne disferà…

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  2. panico2006 7 anni fa

    un’agghiacciante sequela di luoghi comuni, tipicamente italici, senza conoscere nulla del progetto

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  3. saulagana 7 anni fa

    Le dispiacerebbe entrare nel merito?

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