Duterte, l’aspirante dittatore delle Filippine eletto a furor di popolo

14 Maggio 2016

MANILA. «Sarò intransigente. Sarò un dittatore, non dubitatene. Ma solo contro le forze del male: criminalità, droghe e corruzione. Il mio messaggio a tutti gli impiegati governativi, polizia, forze armate, tutti, includendo segretari di gabinetto, è: stop. Semplicemente: stop, la corruzione finisce qui». Che nelle Filippine le elezioni di lunedì 9 maggio siano state costruite su un sistema controverso, e che durante la campagna elettorale ne siano saltate fuori di tutti i colori, conta poco: Rodrigo Duterte è il nuovo presidente e aspirante futuro dittatore, e le Filippine sono in festa. E in protesta.

La festa è per il risultato: 15.882.000 di voti, il 38% del totale, hanno sancito la vittoria del sindaco di Davao, più noto come lo Sceriffo di Davao, o ”the Punisher”, il Punitore – il rimando è al noto fumetto Marvel, essendo le Filippine un paese profondamente americanizzato, al punto che lo sport nazionale è il basket. Lo stacco sugli maggiori avversari è netto: Manuel Roxas, favorito del presidente uscente Benigno Aquino III, e la senatrice Mary Grace Poe Llamanzares, si sono attestati rispettivamente a 9.664.000 voti (23% del totale) e 8.914.000 voti (21%), mentre il vicepresidente uscente Jejomar Binay si è fermato al 12%; ultima, con il 3%, la senatrice Miriam Defensor Santiago. Con oltre il 95% dei voti scrutinati elettronicamente in tempo reale, il risultato è stato subito chiaro: tant’è che già tra lunedì sera e martedì mattina, Poe e Roxas hanno ammesso la sconfitta. Il neo eletto, di suo, ha risposto con una inedita umiltà: «A tutti i miei oppositori politici, tutti quanti, non solo i miei rivali nella corsa alla presidenza, vorrei offrire la mano in segno di amicizia». Ma è durata solo un attimo: «Se accettate, bene. Altrimenti… c’è un tempo per fare i conti e un tempo per scoprire la verità».

Lasciarsi alle spalle la durezza e gli affondi della campagna elettorale potrebbe essere una buona idea: anche per Duterte. Non più tardi di due settimane fa, sui giornali campeggiavano infatti titoli sui suoi conti bancari. In un momento di inedita trasparenza Poe, Roxas, Binay e Santiago hanno reso pubblici i propri redditi e l’entità dei propri conti bancari. L’unico a rifiutarsi à stato Duterte. Nelle indagini svolte dai concorrenti sarebbero saltati fuori oltre 220 milioni di pesos nascosti, circa 4,4 milioni di euro. Non poco in un Paese in cui il 26% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e il Pil annuo pro capite si aggira intorno a 2.700 dollari all’anno, ripartiti in maniera assolutamente ineguale. Quale che sia la vera entità della cifra, nelle indagini dei media sono saltate invece fuori evasioni fiscali. La settimana scorsa un altro affondo. A Davao, città di cui è padre padrone da quasi 30 anni sono risaltati fuori 11 mila impiegati pubblici inesistenti. Ri-saltati perché, secondo un copione tipico locale, la notizia era di un anno e mezzo fa, ma era stata presto dimenticata. Altrove sarebbe stato il colpo di grazia per un auto­-proclamato giustiziere ma… only in the Philippines, come si dice da queste parti: e gli elettori hanno deciso di chiudere un occhio.

Il cosiddetto popolino, ovvero oltre il 95% della popolazione, adora il suo piglio decisionista, e appare disponibile a rinunciare alle libertà civili di cui le Filippine godono da 30 anni (la Edsa Revolution, ovvero le pacifiche dimostrazioni di massa che portarono alla fine della dittatura di Marcos, è del febbraio 1986), se Duterte decidesse di eliminarle. Tassisti, commercianti al dettaglio, impiegati di basso livello, contadini, camionisti, hanno tutti votato per lui. E con loro, ovviamente, le guardie giurate, onnipresenti in un Paese ossessionato dalla sicurezza, che in realtà è davvero un problema secondario rispetto a educazione, sanità, politiche sociali, povertà. Lunedì tutti gli occhi del Paese erano puntati sui risultati, aggiornati in tempo reale, e via via che la travolgente valanga di voti per Roddy diventava più evidente si sentivano e vedevano espressioni di giubilo. Dopo le 17:00, quando i seggi hanno chiuso, c’era aria di festa.

 

Voto caotico, affluenza record

 

Proprio ai seggi sono legate, d’altra parte, le proteste. In questa tornata elettorale è infatti stato introdotto un nuovo sistema con identificazione tramite tessera elettorale biometrica e voto processato elettronicamente. Ma non tutto è andato per il verso giusto.

Per ottenere la tessera gli elettori hanno dovuto registrarsi tra giugno 2014 e ottobre 2015 seguendo una procedura estenuante, che richiedeva intere giornate. Ma questo è il meno. Innanzitutto, il sistema prevede che lo scrutatore trattenga la scheda originale. Inoltre, le Vcm, le Vote counting machines che scrutinavano il voto in tempo reale, trasmettendolo al server centrale (da qui l’aggiornamento costante dei risultati parziali), sono state le vere protagoniste della giornata: su circa 90 mila macchinari, oltre 2.000 non hanno funzionato. Nei seggi sono stati registrate molte altre irregolarità. Per esempio, a Lucban, circa 130 km a sud est di Manila, circa 4mila elettori non hanno potuto esercitare il loro diritto nonostante fossero in possesso della tessera elettorale: i loro nomi erano scomparsi dai registri. L’elettorato locale si è mosso per dichiarare nullo il risultato dei seggi della città, si vedrà come andrà a finire. E poi minacce compravendita di voti, elettori volanti (ovvero persone che votano più volte usando documenti falsi), con buona pace delle identificazioni a prova di broglio.  Quanto tutto il sistema di voto fosse sicuro lo avevano già dimostrato ben prima delle elezioni, lo hanno dimostrato lo scorso 28 marzo alcuni hacker che per protesta contro la gestione delle elezioni hanno attaccato il sito del Comelec, l’ufficio elettorale centrale, e si sono impossessati dei dati di 54 milioni di elettori, pubblicandoli in rete.

Eppure… Only in the Philippines funziona anche in senso positivo. Nonostante la penetrazione Internet sia ferma al 44%, nonostante su 92 milioni di persone 2,5 milioni siano analfabete e il tasso di abbandono scolastico sia superiore al 10%, le procedure e le informazioni sono state in qualche modo assimilate e sopportate, pur di votare. L’affluenza alle urne è stata dell’81,62%, un record storico, la gente ha fatto decine di chilometri a piedi per poi aspettare ore nelle condizioni predette pur di far sentire la propria voce. Le proteste hanno investito solo le procedure: nessuno discute, infatti, la scelta emersa.

 

Voglia di sceriffo

 

I filippini Duterte lo vogliono davvero. Tutti mossi dagli stessi due motivi. Il primo è la disciplina. «C’è bisogno di disciplina, c’è troppa criminalità. E c’è bisogno di disciplina perché noi filippini siamo pigri, Duterte ci costringerà a rimboccarci le maniche e migliorerà le condizioni di vita», è la spiegazione costante dei suoi elettori. Quanto a disciplina, lo Sceriffo fa sul serio. Per sua stessa orgogliosa ammissione, è parte delle famigerate Dds, Davao Death Squad, gli squadroni della morte che hanno ucciso circa 1.000 sospetti criminali, senza processo ovviamente, dal 1988 a oggi. Ovvero da quando Roddy è diventato sindaco. Prima della campagna elettorale, un anno fa, aveva detto: «Se per caso Dio mi mette lì [alla Presidenza], i 1.000 diventeranno 100.000. Vedrete i pesci ingrassare a Manila Bay, perché è lì che getterò i vostri cadaveri…Non voglio essere presidente. Non voglio ammazzare gente, quindi non eleggetemi a presidente». Contrariamente ai posti di lavoro fantasma e all’entità e origine del suo patrimonio, questa frase i filippini non se la sono dimenticata.

Il secondo motivo è che lui «non è di qui»: e per qui si intende Luzon, l’isola principale delle oltre 7 mila che compongono il Paese, quella della capitale Manila. La frase equivale a “non è dei loro”: nella tormentata storia del Paese, colonia spagnola per oltre tre secoli e colonia statunitense per circa mezzo secolo, per “loro” si intende l’oligarchia economica e politica che tiene in mano le Filippine, una dozzina di famiglie tutte originarie di Luzon. Ne fa parte anche il presidente uscente Benigno ‘Ninoy’ Aquino III, figlio della ex presidente Cory Aquino e del compianto senatore Benigno Aquino Jr, fatto uccidere da Marcos nell’agosto 1983. Cory Aquino proveniva dalla famiglia Cojuangco, una delle più importanti del Paese, la cui ricchezza e prestigio derivano dalla proprietà della Hacienda Luisita, fra le maggiori piantagioni di tabacco del Paese. A 118 anni dalla fine della colonizzazione iberica, con pochissime eccezioni, le grandi famiglie degli affittuari, e poi possidenti, delle piantagioni spagnole e quelle dei grandi commercianti, tutti filippini di sangue spagnolo o cinese, sono ancora al potere.

Duterte è il primo presidente a non venire dalla cattolicissima Luzon, ma da Mindanao, la seconda isola più importante, in gran parte musulmana. Lo Sceriffo, però, si dichiara cristiano. Ma non cattolico. Si era in qualche modo capito a gennaio 2015, in occasione della visita pontificia. Lamentandosi dei disagi causati dalle imponenti, a tratti incomprensibili, misure di sicurezza (oscuramento delle reti cellulari ma anche sospensione delle reti bancarie di pagamento), apostrofò Papa Francesco “son of a bitch” sui media.

Ma Roddy le sparate non le fa solo a raggio domestico. Recentemente si è inimicato l’Australia, per una vecchia vicenda del 1989. Quell’anno ci fu una rivolta nella prigione di Davao e lui, che era appena stato eletto sindaco, ordinò la presa con la forza della prigione. A operazione conclusa, venne recuperato nella prigione il cadavere di una volontaria australiana, che era stata oggetto di violenza di gruppo e poi uccisa. Tre settimane fa, durante un comizio, nel rievocare la vicenda, Duterte disse della volontaria uccisa: «L’ho guardata in faccia e, cazzo, che spreco. Quel che mi venne in mente fu: l’hanno violentata, si sono messi in fila. Ero arrabbiato che l’avessero violentata, questo di sicuro… Ma era così bella, il sindaco avrebbe dovuto essere il primo… Che spreco». Apriti cielo. L’Australia si è indignata, e la cosa ha il suo peso: tra beneficienza, investimenti diretti e turismo, l’Australia è insieme con gli Stati Uniti una delle principali fonti di denaro per il Paese.

Lo sono anche i turisti in generale: oltre 6 milioni di visitatori nel 2015.  Ma Duterte non ha esitato a mettere in riga pure loro. Nella sua Davao, dove ha vietato di fumare nelle strade, un turista colto in flagrante è stato costretto dallo Sceriffo in persona, con la pistola alla tempia, a ingoiare la sigaretta accesa. I filippini sono impazziti: 333 anni di dominazione spagnola, 37 anni di dominazione diretta e molti di più di dominazione indiretta statunitense vendicati da una sigaretta. Lo straniero, da sempre l’oppressore o comunque il profittatore (nella variante moderna, il turista sessuale), tollerato solo perché porta cash, è stato finalmente punito. È questa una delle ragioni principali del fascino di Duterte. In una società costruita sull’armonia e la coesione, a scapito dell’individualità, parlare apertamente e in modo diretto non è ammesso. I filippini sorridono sempre, sono quasi sempre gentili, ma la rabbia e la frustrazione per l’estrema ingiustizia sociale sono palpabili. Duterte funge da valvola di sfogo: parla come i filippini vorrebbero ma non possono.

Certo, la sua loquela potrebbe portare a molti guai. A lamentarsi per il commento sulla volontaria non è stato solo l’ambasciatore australiano ma anche quello statunitense. Duterte gli ha detto testualmente di chiudere il becco. Ora, se fare arrabbiare l’Australia è poco saggio, fare arrabbiare gli Stati Uniti lo è ancora meno. Al di là degli investimenti, degli aiuti e dei turisti, le Filippine in questo momento hanno bisogno degli Usa per la questione delle Spratly Islands, quattro scogli semi-sommersi, appartenenti alle acque territoriali filippine, nelle quali i cinesi hanno iniziato imponenti opere di riempimento/innalzamento e la costruzione di piste di atterraggio. Le Filippine si sono rivolte alla Corte Internazionale dell’Aja per le questioni giuridiche, ma la protezione militare dall’imponente e invadente vicino l’hanno chiesta ad Obama. E gli Usa, Duterte lo vedono di malocchio da tempo, per via degli squadroni della morte.

 

The ‘Big Man’ Duterte

 

Può forse sorprendere che un personaggio ambiguo e chiacchierato con manie da dittatore e con tendenza a provocare chi di fatto tiene il Paese a galla sia così affascinante per i filippini. Ma il fenomeno Roddy, in realtà, appartiene a una tradizione antichissima. Duterte, con le sue sparate anti-convenzionali, il suo sprezzo per legge e ordine che non siano i suoi e tutto il suo comportamento vuole solo dimostrare ai filippini la propria forza. Duterte è quello che gli antropologi definiscono Big man: un esponente della tribù si crea una schiera di seguaci elargendo prebende, coi quali esercita un potere di fatto sul territorio, in perenne rivalità con altri gruppi. Spesso la sfida è a colpi di banchetti, di prebende. Talvolta rotola qualche testa. Qui è successo di recente a uno sventurato canadese. La disciplina del rimboccarsi le maniche di cui parlano gli elettori di Duterte è esattamente quella che il Big man esige dai suoi accoliti in cambio delle prebende. Nella tradizione, le prebende erano espresse in tuberi, polli e maiali; vediamo cosa porterà Duterte. Nelle Filippine, del resto, i precedenti non mancano. Marcos ancora amato e riverito da moltissime persone, per le quali l’assenza di libertà civili è stata compensata dal relativo sviluppo infrastrutturale e culturale di cui il passato dittatore è stato, nel bene e nel male, un promotore.

L’aspirante dittatore populista, comunque, non ha solo il supporto del popolino ignorante. Vero, gran parte dell’alta borghesia stava con Roxas, mentre il certo medio sosteneva Poe. Molti, però, nelle ultime settimane hanno cambiato idea a favore dello Sceriffo, seppur turandosi il naso: Roddy viene visto come un implementer, un uomo deciso e capace di agire. Così non sono pochi gli imprenditori, i professionisti e gli accademici che hanno deciso di votarlo, confidando che le dinamiche della politica nazionale ed internazionale finiscano per smussare le sue asperità verbali. Non è una speranza del tutto infondata: qualche tempo dopo il “son of a bitch” indirizzato al Papa, Duterte ha dichiarato che la sua prima visita da presidente sarebbe stata in Vaticano.

 

Incognita economica

 

Da un decennio le Filippine sono protagoniste di una buona crescita economica, che nell’ultimo lustro è stato quasi un boom: oltre il 6% di incremento annuo del Pil dal 2010 al 2014, il 5,8% nel 2015. L’unico fattore trainante della crescita sono state le Bpo, Business process outsourcing, cioè fornitori di servizi esternalizzati di vario tipo, in particolare call center. In un decennio il Paese ha scippato all’India oltre il 70% del mercato mondiale, che oggi per due terzi basato qui. Le dimensioni dell’industria sono imponenti: solo a Manila impiega circa un milione di persone; con Cebu e Davao, rispettivamente la seconda e terza città, si arriva a oltre 1,2 milioni. Sono nati interi quartieri, le banche offrono mutui e prestiti al consumo, i centri commerciali rigurgitano di gente; i committenti sono statunitensi (60% del mercato), seguiti da europei (Regno Unito in testa), e ovviamente Asia.

Eppure si tratta di una crescita fragilissima, e che coinvolge un’infima minoranza della popolazione. Basterebbe poco, un eccessivo apprezzamento del tasso di cambio per esempio, a invertire la tendenza a favore dell’India, che per inciso di una fetta di queste Bpo filippine è proprietaria. Per il resto, al di là di turismo e Bpo, le Filippine sono ricche di materie prime e hanno una produzione agricola di relativo rispetto, ma con i prezzi delle commodity ai minimi e la costante minaccia meteo (da ultimo il pesante periodo di siccità causato da El Niño)  per ora non c’è molto da spremere, mentre il manifatturiero è sostanzialmente dipendente da crescita e consumi cinesi.

Cosa intende fare Duterte rispetto a tutto ciò? Non si sa, ma del resto su quasi tutti i temi Roddy e gli altri sono stati molto generici ed elusivi, con qualche eccezione: Roxas aveva qualcosa di concreto da dire sulla sanità, Binay sugli investimenti esteri, la senatrice Santiago è una persona estremamente preparata. Duterte, invece, sembra preparato solo in materia di crimine. Ha detto che in quanto figlio di un’insegnante (la madre; il padre era governatore della provincia di Davao) si prenderà cura dell’educazione, rimarcandone l’importanza. Dato lo stato desolante dell’istruzione, se in questo campo Duterte si dimostrasse decisionista ed efficiente, potrebbe anche non essere un male. La crescita economica rimane la priorità, ha detto il portavoce del Punitore, ma con l’ambizione di coinvolgere fasce sociali fin qui rimaste ai margini. Per il momento i mercati finanziari non si sono spaventati e hanno concesso un’apertura di credito: la scommessa che è che vengano rimossi i limiti al controllo straniero delle imprese che operano in alcuni settori protetti.

Cosa succederà d’ora in avanti è difficile dirlo. Se Duterte si rivelasse, dietro alla maschera da duro, un politico come gli altri, probabilmente niente di sconvolgente. Del resto, lui ha più volte detto di essere disposto a proseguire alcune politiche del presidente uscente Aquino. Se le cose andassero male, avremmo a che fare con un Marcos bis, plausibilmente più sanguinario. All’estero, un personaggio simile può lasciare perplessi. A suoi concittadini Duterte piace e, in definitiva, questo conta: i filippini hanno avuto ciò che volevano.

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Nella foto, Rodrigo Duterte, neo presidente delle Filippine

 

 

TAG: Cory Aquino, Davao, Filippine, Jejomar Binay, Manila, Manuel Roxas, Mary Grace Poe Llamanzares, Rodrigo Duterte
CAT: Asia

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