La mappa della poesia italiana: lirici, performer e sperimentatori

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26 Agosto 2017

Come sta la poesia italiana? Qual è la sua condizione attuale? Si tratta di domande a cui non è semplice o immediato rispondere, poiché il fenomeno da considerare è complesso e difficile da circoscrivere. E però qualche indicazione la si può restituire. Si potrebbe dire che si tratta di un genere letterario al tempo stesso marginalizzato e in fermento, con rilevanti elementi di novità rispetto al recente passato.

Le vendite dei libri di poesia, verosimilmente mai troppo elevate, nel 2014 totalizzavano lo 0,59% del mercato, e tuttavia soltanto qualche decennio fa i poeti avevano un’influenza e una visibilità maggiori all’interno dell’industria culturale (vedi, sempre su Stati Generali, Un popolo di poeti, ma chi li legge oggi?). Però, non si può negare che l’avvento di internet e di nuovi spazi editoriali, come i blog e le riviste online prima e i social network in seguito, abbiano offerto ai testi poetici luoghi ulteriori di pubblicazione e di diffusione.

In questa esplosione internettiana c’è spazio per fenomeni contrastanti e così online si trovano sia sfoghi acerbi ed estemporanei, alcuni dei quali però domani potrebbero evolvere in qualcosa di più profondo e maturo, sia spazi gestiti da poeti, studiosi e appassionati che pubblicano poesia di qualità. Provando a tracciare una mappa estetica della poesia italiana, non si può non notare un grado significativo di vitalità e un’interessante divaricazione di forme e di stili. Le forme della poesia italiana oggi sono molteplici e non sono rari in casi in cui gli autori delle diverse tendenze maturano percorsi e visioni così radicalmente distanti tra loro da finire per disconoscersi gli uni con gli altri, per negare o contestare, apertamente o meno, le ragioni d’essere delle scritture poetiche altrui.

Volendo tracciare uno schema, o restituire una sintesi, una visione che mostri con una certa chiarezza le cose, a costo forse di qualche semplificazione, si possono indicare tre macroaree riferibili al genere letterario della poesia: una poesia, pur con molte differenze al suo interno, che ripercorre e rinnova la tradizione scritta del nostro ‘900, che da Ungaretti e Montale arriva a Sereni, a Luzi, a Zanzotto, fino ai contemporanei Milo De Angelis, Maurizio Cucchi, Cesare Viviani, Umberto Fiori e Valerio Magrelli; una poesia, che si definisce di ricerca, fortemente connotata da una scrittura, che si manifesta spesso nelle forme della prosa, di tipo non assertivo, dove si nota l’assenza o l’attenuazione della presenza del soggetto, e animata da una critica, anche politica, agli schemi attuali del linguaggio e dei significati e alle logiche di potere che vi sarebbero contenute; una poesia, identificata come orale e performativa, i cui testi di norma sono scritti con l’idea di essere rappresentati e letti ad alta voce, con o senza un accompagnamento musicale. Per completezza, si può aggiungere che esiste anche, soprattutto nei contesti più sperimentali e di ricerca, un ambito della poesia che fa uso, combinandoli con il testo, di elementi visivi, grafici o fotografici. Questa idea tripartita delle forme attuali della poesia è presente nel libro, pubblicato dall’editore Carocci, Poesia italiana degli anni duemila – Un percorso di lettura di Paolo Giovannetti, professore di letteratura italiana allo Iulm. In particolare, Giovannetti, che sulle diverse forme della poesia si era soffermato già in quest’intervista su Stati Generali, ci parla di poesia lirica, orale e di ricerca.

Le diversità all’interno della letteratura ci sono sempre state, come pure le rivalità tra gli autori. Ma la differenziazione attuale delle forme della poesia è singolare e per molti versi nuova, se si considera che l’ambito della ricerca, raccogliendo, insieme ad altre influenze, l’eredità di autori come Nanni Balestrini, Francis Ponge ed Edoardo Sanguineti ha raggiunto un grado di esasperazione assai accentuato e che le scritture orali e performative hanno mostrato di recente un dinamismo significativo. Differenze che, come si è detto, di frequente generano distanze e forme di disconoscimento tra gli autori delle diverse tendenze. In breve, e semplificando un po’ il discorso, gli esponenti delle scritture di ricerca spesso, che lo esternino o meno, ritengono gli altri poeti, lirici o performativi, con inevitabili eccezioni, attardati dentro forme superate e incapaci di leggere l’attuale universo politico e mediatico, e quindi di scrivere testi pertinenti in questo contesto. E un buon numero di poeti performativi a sua volta e per altre ragioni considera i poeti lirici o comunque fedeli alla tradizione di una poesia scritta per la pagina e per essere letta in silenzio troppo debitori di forme novecentesche ormai stantie e, verosimilmente, reputa troppo intellettualistici, freddi e astratti molti tra i poeti di ricerca. Opinione quest’ultima, tacitamente o apertamente, condivisa da molti poeti lirici, che dall’altra parte di frequente accusano i poeti orali e performativi di un eccesso di spettacolarizzazione, ovvero di piegare la scrittura poetica alle logiche del palco e dell’applauso del pubblico, a scapito del significato, del rigore e della cura della parola. Per chiarezza, giova forse precisare che, sebbene sia cosa ovvia, anche per la poesia lirica è quasi sempre ammessa, e in molti casi opportuna e utile ad amplificare l’efficacia dei testi, la possibilità di una lettura ad alta voce. E conviene precisare che la categoria della poesia orale è funzionale a identificare alcuni autori che fanno del momento performativo una fase fondamentale del loro lavoro. E, però, va detto che strutturalmente, ontologicamente, in termini di teoria della poesia, le scritture performative non sono estranee ai modi della lirica, essendone anzi, quasi sempre, naturalmente partecipi. E, ovviamente, una ricerca e una tensione verso l’innovazione della scrittura è possibile in tutti i modi della poesia indicati qui sopra, e non soltanto in quello identificato come poesia di ricerca.

L’ambito della poesia, in senso esteso, lirica o in qualche modo erede della tradizione novecentesca è assai ampio, ricco di differenze al suo interno e, forse paradossalmente, assai difficile da circoscrivere. Nella generazione dei nati tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’80 si possono segnalare, insieme a molti altri, alcuni dei quali sono citati in altre parti di questo articolo, e in un elenco in evoluzione ed espansione costante Guido Mazzoni, Massimo Gezzi, Luciano Mazziotta, Giovanna Marmo, Maria Grazia Calandrone, Tommaso Di Dio, Andrea De Alberti, Giovanna Frene, Stefano Raimondi, Carmen Gallo, Vito Bonito, Franca Mancinelli, il ticinese Yari Bernasconi e Damiano Sinfonico.

Va da sé, che ci siano anche, e non pochi, poeti appartenenti a tendenze diverse che si leggono e si stimano, riconoscendo la validità dei rispettivi testi e lavori. E dall’altra parte, inevitabilmente, pure all’interno delle singole tendenze indicate non mancano tra diversi autori forti distanze di opinione e differenze di visione. Le categorie e le distinzioni appena enunciate non vanno intese in modo troppo rigido e schematico, sebbene possano essere una fotografia o, se si preferisce, una serie di immagini in movimento abbastanza vicine allo stato del reale. E non mancano autori più difficili da catalogare e che nei loro testi accolgono modi di scrittura e influenze provenienti da tendenze differenti. Del resto, di sicuro non è un caso che l’ultima antologia capace di fare il punto sulla poesia italiana contemporanea, ormai risalente a più di due lustri fa, sia intitolata Parola Plurale (Luca Sossella Editore, 2005).

Provando a interrogarsi sulle motivazioni di questo stato delle cose, Giovannetti afferma che “dalla rivoluzione del verso libero in poi, tutto cospira alla moltiplicazione degli stili, delle tecniche, delle procedure. Tutto incoraggia la definizione di dispositivi formali il più possibile individualizzati, personalizzati. Dovremmo – e chi ne ha la voglia, in questo momento? – ripercorrere con pazienza la storia delle avanguardie per venire a capo di certe proliferazioni. Parole in libertà, tavole parolibere, scrittura automatica, cadaveri squisiti, lettrismo, poesia asemantica, poetronica, eccetera eccetera. La verità, forse, è che, una volta messa in crisi la struttura ereditata delle forme poetiche, nel giro di poche stagioni anything went, tutto è stato possibile; e indietro non si torna più. Si tratta “solo” di capire volta per volta perché un poeta o un gruppo di poeti hanno fatto uso di quella forma e non di un’altra, perché hanno scelto di scrivere in un determinato modo. La metricologia è spesso una disciplina stilistica. Si orienta all’individuale, all’individuo. Ci si impegni dunque, si studi, si capisca: e le forme divaricate si disporranno come nella tavola di Mendeleev. In attesa che qualcun altro la metta in crisi con un monstrum inaudito. Dopodiché si ricomincerà a fare tassonomie. Ad infinitum. Com’è giusto che sia. Per concludere: le forme sono plurali, diverse e divaricate, e va bene. Quello che non va bene è che davanti alla babele di linguaggi si continui a fare l’elogio del latino, dimenticandosi che non solo ci sono le lingue romanze, ma che tutti i popoli son fra di noi – qui e ora. E sbraitano, strillano, cinguettano il loro latino. E noi dovremmo (provare a) capirli”. Posta l’attuale pluralità e proliferazione di forme poetiche, cosa non eliminabile e di per sé interessante e apprezzabile, capire quale sia la ragione che determina una precisa scelta di stile o di contenuto, come sottolinea Giovannetti, è una chiave preziosa per entrare in relazione con la condizione del presente. E la ragione in questione richiama a motivazioni sostanziali, per così dire complessive, generali, e non necessariamente, o non del tutto, razionalizzabili.

Provando a fare il punto, il poeta Umberto Fiori concorda sulla diversificazione degli stili e sulla distanza delle diverse personalità, ma considera il fenomeno simile ad altri già conosciuti in letteratura: “È vero: i poeti che si rifanno a tendenze differenti tendono a ignorarsi. Forse è inevitabile: le distanze, le differenze di prospettiva, di atteggiamento, sono molto profonde; ognuno ha fatto la sua scelta e non credo che un confronto servirebbe a molto. Si ignorano, ma conoscono fin troppo bene, o credono di conoscere le posizioni diverse dalle loro, perché le hanno prese in considerazione, valutate e accantonate. Non mi pare che sia una novità. All’inizio del Novecento tra Gozzano, Sbarbaro e Marinetti – tanto per nominare tre prospettive contrapposte – è difficile immaginare un dibattito. Ognuno di questi autori lavorava nella propria direzione, e ognuno di noi è libero di leggere oggi quelli che più lo emozionano. Io non credo molto all’utilità di un confronto “teorico”, di un ragionamento sulle poetiche, sui loro fondamenti, sulla loro maggiore o minore adeguatezza; la poesia – almeno quella che mi appassiona – non nasce da riflessioni estetiche generali, ma da una necessità forte dell’autore, che poi può anche fornire delle ragioni, ma solo quando l’opera c’è. Spesso, invece, ci sono le estetiche, le poetiche, ma l’opera è inconsistente. La condizione attuale della poesia italiana mostra una frammentazione, ma soprattutto risente di una perdita complessiva di prestigio, che investe quasi tutte le tendenze. Personalmente, credo che, se una scrittura ha senso, in un modo o nell’altro, col tempo, farà la sua strada. Leopardi aveva molti argomenti contro la poesia romantica a lui contemporanea, ma è la sua poesia, non certo la validità “oggettiva” di quegli argomenti, ad avere finito per prevalere”.

Il poeta Italo Testa, in armonia, se si vuole, con il suo percorso poetico, che comprende aspetti lirici e modi più vicini alle scritture di ricerca, e che in certe forme iterate visibili nella produzione recente pare contenere in nuce elementi di oralità, invece ipotizza che questa specie di diversificazione poetica sia più apparente che reale: “Quelle che a prima vista possono sembrare differenze profonde, generando forme di disconoscimento anche radicale tra diverse bande letterarie, sono probabilmente meri effetti di superficie, che hanno a che fare con la sociologia letteraria più che con la comprensione dell’effettività della poesia attuale. Viviamo in una situazione piuttosto paradossale. Mai come oggi un osservatore fuori dai giochi, non socializzato all’interno del campo letterario italiano, potrebbe riscontrare un terreno comune piuttosto esteso per quanto riguarda gli strumenti formali, i nuclei dell’immaginario, gli aspetti tematici. Eppure siamo tutt’ora ostaggio di modelli critici tarati su una situazione antecedente, e che riproducono dicotomie che distorcono la lettura dei fenomeni poetici attuali. Di conseguenza, categorie quali poesia lirica e poesia di ricerca, poesia orale e poesia scritta, soprattutto laddove siano usate in forma dicotomica, finiscono per generare fenomeni distorsivi dal punto di vista descrittivo – perché sfigurano e rendono irriconoscibili i fenomeni che dovrebbero descrivere – e per molti aspetti sono basate su punti di vista normativi non più giustificabili, se non su modelli teorici fraintesi. Mario Benedetti – non solo quello di Pitture nere su carta (Mondadori, 2008) – non mi sembra meno di ricerca di Alessandro Broggi, o più lirico di Marco Giovenale. Certo permangono posizionamenti legittimi all’interno del campo letterario, che rispondono a certe storie biografiche e di gruppo, e generano effetti pragmatici sul breve periodo. Tuttavia sono convinto che nel lungo periodo dovremo arrivare a una comprensione più profonda, e che questo richiederà delle categorie del tutto trasversali rispetto a tali posizionamenti”. E, sempre Testa, anche quando si tratta di indicare quale sia il perimetro della poesia invita a prendere come metro di paragone ed esempio le singole opere: “Per quanto riguarda il rapporto tra oralità e scrittura, credo che le polemiche generate dal fenomeno degli slam da un lato, e dal premio Nobel a Dylan dall’altro, siano piuttosto fuorvianti, e ingenerino, soprattutto nel campo letterario tradizionale – avanguardista e non – formazioni difensive di tipo regressivo, che in modo curioso rinnovano inconsapevolmente una forma di distinzione crociana tra poesia e non poesia. Le discussioni di principio circa il fatto se lo slam sia poesia o no, se Dylan sia o meno un poeta, mi sembrano francamente poco interessanti e di retroguardia, perché in definitiva ciò che è la poesia di volta in volta lo decidono le opere importanti, che ne ridefiniscono l’idea”.

Gabriele Frasca, poeta e intellettuale autore di un’opera, La letteratura nel reticolo mediale – La lettera che muore (Luca Sossella Editore, 2015), assai significativa in relazione al tema della storia e della teoria del testo tra oralità e scrittura, a sua volta contesta l’ipotesi di una campo della scrittura poetica composto da mondi distanti tra loro: “A fronte anche delle diverse scelte di posizionamento e delle divergenti risoluzioni formali, mi sembra che oggi i poeti siano più propensi a dialogare gli uni con gli altri, e a riconoscersi vicendevolmente quel quid che li accomuna, fosse anche soltanto la sostanziale marginalità. Basta dare un’occhiata alle collane di poesia nate di recente, dove spesso convivono autori che in passato sarebbero stati ritenuti quanto meno incompossibili, se non apertamente belligeranti. D’altra parte nemmeno più gli steccati ideologici sussistono, anche se di questo mi rallegrerei meno, perché l’assenza di ideologie vuol dire invero che ve n’è una sola, e soffocante. Non bisogna dunque lasciarsi ingannare dalla maggiore propensione alla rissa che riguarda solo le frange più periferiche di un fenomeno del resto già residuale. Ogni epoca si riflette nel suo medium trainante, e al momento siamo ancora (per poco) assorbiti dalla rete. E nella comunicazione in rete sappiamo quanta energia si sprechi nel flaming. La rete, come il mondo che vi è al momento impigliato, ivi compreso quello che ha a che fare con la poesia, è un unico assordare di sussurri: ovvio che si cerchi di fare la voce grossa, se non altro per provare a sentirsi in tanto brusio. Non son mica i ceffoni che minacciavano d’infliggere i futuristi, fino a riceverne come càpita altrettanti. Solo gli schiaffi con cui si cerca di risvegliare un arto intorpidito”. E, ancora Frasca, in merito allo stato della poesia nell’ambito nella letteratura italiana restituisce un’impressione positiva: “A me non pare che la poesia in Italia sia messa tanto male. Mi preoccuperei di più della prosa narrativa, e persino della saggistica, a partire, duole dirlo, da quella universitaria. Dipenderà magari dal fatto che la pratica della poesia costringe a riflettere sulla lingua, e a provare e riprovare il canale di contatto, ma ogni qual volta ci s’imbatte in una composizione in versi, e dunque congegnata per inglobare persino i silenzi delle pause, la nostra lingua torna a scalciare come se fosse appena nata. Quale che sia la tendenza più o meno dichiarata dal poeta, la lingua resta una, ed è una lingua viva. Viva per statuto persino se si è solo alle prime armi, a patto che si mòlino di già gli strumenti. Non è purtroppo lecito dire lo stesso per gli attuali narratori, che, esclusi i casi eccelsi, parrebbero nel lessico come nella sintassi avere a che fare con una variante d’italiano artatamente semplificata, se non con una lingua appresa straniera in tarda età. Mi rendo conto che si tratta di una precisa strategia editoriale, ma gli effetti finiscono con l’essere devastanti, e come recitano le statistiche persino controproducenti. Ad assemblare di séguito pagine e pagine equitonali, nella speranza di non smarrire il presunto lettore sprovveduto, si annoia quello smaliziato, che magari in queste congiunture resta il solo che metterebbe mano al portafoglio per acquistare libri fra l’altro tipograficamente sempre più scadenti. Quanto alla saggistica universitaria la situazione è ancora più deprimente, e non solo per la rinuncia alla lingua italiana di tanti settori disciplinari immessi a suon di riforme nell’immaginario libero mercato delle idee che sarebbe garantito da un inglese poco più che adamitico. Persino nelle discipline che si alimentano dell’italiano, storico-letterarie o linguistiche che siano, si privilegia un tono dimesso, quando non sciatto, appannaggio per i più dell’esattezza della scienza, disdegnosa di suo delle fumisterie dello stile”.

Di una poesia inevitabilmente polimorfica ci parla il poeta Lello Voce, figura di riferimento nell’ambito della poesia orale: “Oggi la poesia può stare su differenti supporti, c’è quella che si può leggere in un libro, e che ha una storia più breve di quella che la precede, poiché la poesia esisteva prima che ci fosse la scrittura, e c’è una poesia che si realizza per mezzo di una performance, o anche attraverso le forme della videopoesia. In questo momento c’è un ritorno dell’oralità, e quando parlo di poesia orale intendo l’oralità secondaria (ndr. Walter Ong nel suo saggio Oralità e scrittura del 1982 teorizza che i media elettronici favoriscano un ritorno a una nuova forma di oralità, appunto secondaria), oppure l’oratura, ovvero l’esecuzione. È ovvio che un testo che viene composto per essere eseguito, secondo ritmi o prosodie, sarà un testo diverso da quello che è nato per una lettura silenziosa, ma non capisco perchè chi scrive libri si debba sentire attaccato da questa cosa e di conseguenza debba sentire il bisogno di contestare la poesia orale. La poesia è l’unica arte che ha cambiato il suo medium di trasmissione, passando dall’oralità alla scrittura, questa è una cosa enorme, e lo sta cambiando di nuovo, attraverso un ritorno all’oralità, ma non è che quando subentra un nuovo medium quello di prima scompaia. Del resto, anche la lettura sta cambiando, i meccanismi di comunicazione si sono radicalmente trasformati, c’è la rete, forme di dettatura diretta, e ancora ci sono mutamenti vistosi del modo di scrivere, messaggi inviati attraverso gli smatphone, segni iconici… E poi, bisogna valutare con attenzione caso per caso: si trovano cose pessime nell’ambito della spoken word come ci sono libri di pessima qualità. Ad esempio, Kate Tempest e Iolanda Castaño, sono autrici di assoluta qualità e che producono testi di valore letterario, ma che si dicono e si eseguono ad alta voce”.

Lello Voce, inoltre, nel marzo del 2001 ha introdotto in Italia il poetry slam, una competizione in cui i poeti recitato i loro versi, che poi vengono valutati da una giuria di persone estratte a sorte tra il pubblico. Attorno al poetry slam, di cui qui non si può trattare diffusamente, si sono alimentate numerose polemiche: i critici sostengono che il meccanismo della gara favorisca modalità più affini a quelle del mondo dello spettacolo che a quelle della poesia; i sostenitori ritengono fuorviante focalizzare l’attenzione sulla competizione e dicono che l’importanza del poetry slam sta soprattutto nelle sue potenzialità di aggregazione di una comunità di autori e di appassionati. Probabilmente, c’è del vero in entrambe le tesi. Sul tema il poeta Dome Bulfaro ha scritto un libro, guida liquida al poetry slam – la rivincita della poesia (Agenzia X, 2016), che è anche una sorta di manifesto del fenomeno, senza mancare però di accogliere alcune opinioni critiche. Oltre ai già citati Bulfaro e Voce, l’ambito della poesia orale raccoglie numerosi autori, tra cui pure si possono notare differenze di stile e di ricerca. Tra questi si possono indicare Giacomo Sandron, Alfonso Maria Petrosino, Chiara Daino, Alessandra Racca, Gabriele Stera, Alessandro Burbank, Julian Zhara e Paolo Agrati. In questo contesto si è imposto anche un autore come Guido Catalano, di recente capace di attirare da un lato l’attenzione di un pubblico relativamente ampio e dall’altro le critiche di chi vede in certi suoi testi un abbassamento eccessivo del livello espressivo. L’uso della voce e dell’oralità nell’esecuzione dei testi è in vario modo importante anche per poeti come Rosaria Lo Russo, Paolo Gentiluomo, già componente del gruppo ’93 e con una scrittura portata verso tecniche combinatorie e associazioni foniche, Luigi Socci, Sara Ventroni, a modo suo in bilico tra scrittura e oralità, e Ida Travi, per cui l’esecuzione del testo sembra essere in relazione con una dimensione creatrice e ancestrale della lingua stessa.

Roberto Batisti, studioso di filologia classica presso l’Università di Bologna, sembra voler contestare la distinzione tra poesia orale e poesia scritta o pensata prevalentemente per una lettura silenziosa, ravvisandovi un potenziale fattore di confusione: “Trovo sbagliato e pericoloso voler costruire dicotomie, negare la simbiosi di scritto e orale che vige da che esiste l’alfabeto. Anche una poesia destinata a non uscire dal foglio di carta deve far attenzione ai valori fonici e ritmici; soprattutto, una poesia composta in vista del palco e dell’impatto orale tende a esibire un basso grado di complessità strutturale e stratificazione. Si rischia allora di trascendere in forme d’arte altre: teatro e performance, per la poesia troppo marcatamente orale; arti visive, per quella che al contrario vive tutta d’espedienti grafici e non sarebbe recitabile a voce. Nobilissime arti, ma non poesia”. Visione condivisa dal poeta Bernardo Pacini secondo cui un testo di poesia orale andrebbe sottoposto alla “prova della lettura silenziosa”, ovvero della pagina, così come una qualunque poesia, verosimilmente lirica, pubblicata o meno su carta o su altri supporti, dovrebbe suonare, avere una sua musicalità.

Nell’ambito della poesia di ricerca, tra gli altri, operano Marco Giovenale, Giulio Marzaioli, Gherardo Bortolotti, Michele Zaffarano, Alessandro Broggi e Vincenzo Ostuni.  Non ancora trentenni, in questo contesto sono attivi anche Daniele Bellomi e Manuel Micaletto, nei testi del quale è però visibile una tensione lirica. Questi poeti pur in una significativa varietà di modi e posizioni, argomentano che una sperimentazione spesso radicale e di confine sia giustificata anche da un mutamento profondo del contesto linguistico, e quindi culturale. Posizione che Giovenale spiega ed esplicita così: “Il contesto in cui tenderebbero a collocarsi le molte forme di poesia presenti oggi in Italia è profondamente mutato negli ultimi 20/30 anni per via di un cambiamento ampio e strutturale nella vita e nelle percezioni delle persone, che si può dire sia iniziato intorno agli anni Sessanta. Parlerei addirittura di un cambio di paradigma, che coinvolge, sconvolge e mette in crisi la categoria stessa del letterario e perfino i generi letterari, tanto da far debordare la prosa nella poesia, rendendo le due pressoché indistinguibili. All’interno di questo contesto, mutato in tutto il mondo, e di cui in Italia arrivano a volte solo echi, parlare di forme e modi e correnti è sempre più difficile, perché il concetto stesso di poesia si è fatto perfino più labile che in passato. In particolare, nel nostro paese, è vero quello che la domanda annota: le aree e i campi che si richiamano a una idea definita di poesia lavorano e strutturano il proprio operare in maniera a volte molto concentrata su sé, “fingendo” la permanenza di categorie e versanti che – come detto – si sono chiusi al chiudersi del XX secolo. Per questo, soprattutto in riferimento all’ultimo ventennio mi è difficile parlare di correnti, forme e modi della scrittura che siano complanari e più o meno paralleli e/o in conflitto o in dialogo. Di fatto, un campo unico e comune non esiste più. Semplificando molto, a me sembra che si possa dire che individuiamo semmai sociologicamente un campo “poesia” all’interno del quale varie correnti continuano lo spettacolo del (defunto) Novecento, e le sue tensioni. All’esterno di questo, al di fuori della “poesia” (talvolta casualmente attraversandola), si estende ovunque un territorio sterminato che non ha invece assolutamente nessun parametro di definizione, ancora, ma che possiede già decine se non centinaia di migliaia di situazioni, eventi, riviste, letture, festival, editori, collane, blog, siti, luoghi e sedi che fanno tutt’altra cosa da ciò che in Italia comunemente si intende per letteratura e specificamente – appunto – poesia. È in questo territorio ancora in formazione, plastico e ignoto che si muovono e operano le scritture di ricerca”.

Il poeta Vincenzo Frungillo, riflettendo su ambiti tra loro distanti come la poesia lirica e le scritture di ricerca, contesta “sia l’iper-soggettivismo di certa poesia lirica nei cui testi non viene problematizzato il rapporto tra il soggetto e il mondo e che per questa ragione risulta distaccata dalla realtà sia alcune scritture di ricerca che, dal mio punto di vista, sono eccessivamente focalizzate sulla pars destruens, ossia su uno sperimentalismo del tutto perso nella messa in evidenza della crisi del soggetto. Entrambi i modi mi sembrano mancare di una relazione con il mondo, e quindi con l’altro”.

La scrittrice e critica letteraria Gilda Policastro in una nota uscita su L’Ulisse del maggio 2015 prova a inquadrare lo stato delle cose e suggerisce una modalità possibile di azione, o forse di interazione, poetica: “Attualmente, mi pare di poter distinguere un filone più propriamente lirico che riutilizza, pur con modalità ed esiti molto diversi, le forme strofiche classiche, l’endecasillabo, la soggettività, la figuratività. Di quest’area i riferimenti obbligati restano Montale, Sereni, Caproni o al massimo la linea crepuscolare. C’è poi una nuova area della ricerca che guarda alle altre arti come a un modello di produzione indiscriminata di linguaggi, e che rinuncia alla centralità della parola e del suo aspetto referenziale, arrivando all’estremo dei lacerti di senso senza più nemmeno l’avvertimento della necessità o dell’assenza di un sovrasenso. Sono esperienze parallele, quasi non comunicanti, che hanno luoghi e momenti distinti e ben perimetrati per esprimersi (i festival e i premi da un lato, i blog e i ritrovi per pochi iniziati dall’altro). Sarebbe il caso forse che negli esiti migliori arrivassero a toccarsi, e perchè no a confliggere, e non per giungere a una sintesi impraticabile, ma per potersi reciprocamente sabotare e rinnovare vicendevolmente”.

La considerazione che Guido Mazzoni, poeta e professore di critica letteraria e letterature comparate all’Università di Siena, avanza nel suo saggio Sulla poesia moderna (Il Mulino, 2005) argomentando sulla marginalità recente, e più o meno relativa, del genere letterario della poesia, per certi versi, sembra prestarsi a spiegare anche l’attuale diversificazione o pluralità delle scritture poetiche: “La poesia è il più soggettivo ed egocentrico dei generi letterari, quello che, nella sua forma più comune, parla di contenuti personali in uno stile che vuole essere personale, cioè lontano dal modo ordinario di dire le cose. Contiene un elemento narcisistico che, in una società monadica, gremita e divisa in nicchie, finisce per disturbare il narcisismo altrui, perché ignora i luoghi comuni grazie ai quali gli esseri umani comunicano, magari sostituendoli con altri luoghi comuni, più settoriali”.
E però, oltre a questo, sono numerosi i poeti, sia vicini all’ambito della ricerca sia sensibili alla tradizione novecentesca, che in forme variamente liriche o narrative, e affini alla prosa, o anche poematiche, negli ultimi tempi hanno affrontato temi collettivi, o in qualche modo pubblici. Che sia possibile parlare di una sorta di nuova poesia civile o meno, il punto è che con gli strumenti della poesia, assai dissimili da quelli, per esempio, del romanzo, si è deciso, in opere complesse e che esprimono – va da sè – anche altro, di dire, spesso combinando sguardo privato e ottica generale, della condizione di incompiutezza e bisogno dell’uomo contemporaneo, o semplicemente dell’essere umano, e ancora di contesti criminali, lavoro, scuola, giustizia o idea di ciò che che è giusto, passione politica e crisi dell’occidente, frammentazione dell’esperienza collettiva, forme del linguaggio nei media e nella quotidianità. In queste direzioni, con stili e forme differenti, si sono mossi, tra gli altri, autori come lo stesso Mazzoni, Gherardo Bortolotti, Gilda Policastro, Alessandro Broggi, Andrea Inglese, Michele Zaffarano, Marco Giovenale, Vincenzo Frungillo, Gianni Montieri, Corrado Benigni, Francesco Filia, Mario De Santis, Marilena Renda e Francesco Targhetta. Ci sembra che questa varietà e diversità di modi e di forme nella poesia sia, oltre che un segno di ricchezza, un’indicazione di vitalità e una specie di assicurazione sul futuro di questo genere letterario, a dispetto di un rapporto con il pubblico, più o meno, di nicchia. Poi, di volta in volta, e caso per caso, starà agli autori, alla critica, non soltanto e non necessariamente accademica, e ai lettori valutare l’efficacia e la riuscita di ciascuna opera. Conviene dire, che si sente il bisogno di studi critici che si prendano l’impegno di leggere e di comprendere la complessità del presente, se possibile in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue tendenze.

Per fortuna, molte strade, se non tutte, sono aperte e ammesse. Così, per esempio, si può forzare una ricerca fino ai confini della scrittura o della lingua, fino a tentare di mostrare la debolezza, la corruzione e il silenzio del linguaggio comune e delle forme della comunicazione. E si possono ancora usare, se in linea con la propria sensibilità di autore, con i significati, l’immaginario poetico e i contenuti a partire da cui si scrive, anche forme letterarie connesse con un passato lontano. La questione va oltre un’eventuale disputa sulla liceità o meno di fare uso dell’endecasillabo. È più complessa. C’è che il linguaggio, soprattutto quello della poesia, e la scrittura nel tempo evolvono, si trasformano, in fretta oppure più o meno lentamente e inesorabilmente, e lo fanno indipendentemente dalle forme, o meglio anche all’interno delle forme che si usano. I generi letterari hanno spesso, pur attraverso mutazioni e diversificazioni, vita plurimillenaria, e anche forme e modi, se così si può dire, possono essere longevi, possono esistere a lungo, modificandosi nel tempo. E, ancora, è perfettamente ammissibile una ricerca poetica che faccia dell’esecuzione orale dei testi un momento significativo o essenziale. E non si tratta di una novità: questo genere letterario, a più riprese, si è trovato in posizioni di scambio, confine, vicinanza e osmosi con la musica, la canzone e il teatro. E più in generale, se così si può dire, con un’espressione sintetica, sono possibili e visibili scritture poetiche felicemente contemporanee, anche per i lettori futuri, in ognuno dei modi indicati qui. La qualità di un’opera, quando c’è, si manifesta di volta in volta nella forma più opportuna.

È sempre arduo definire un genere letterario, e definire la poesia è ancora più difficile. E forse è un bene: quando la teoria, pur importante, non è tutto, la realtà ha una risorsa in più. Almeno in questo caso. Di sicuro, oggi la poesia è un genere multiforme. E se si può provare a lasciare una piccola indicazione di massima, è forse bene ricordare che la storia della poesia, pur attraverso una metamorfosi dei modi, e oltre la fortuna e il successo contingente, nei casi risolti ci parla sempre di scritture, lineari o articolate, segnate da tensioni, da accelerazioni di intensità, di volta in volta, concettuali, morali, se si vuole, in senso lato spirituali, stilistiche, linguistiche, estetiche e filosofiche, che forse, insieme ad altri fattori, ne sono parte della sostanza profonda. Questo con la scrittura e la parola al centro, soggetto e oggetto della sfida – poco importa se in positivo o in negativo, se affermate o negate.

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Foto di copertina: Henri Fantin-Latour, Gruppo di poeti riuniti intorno ad un tavolo, 1872

TAG: contenuto, Cultura, forma, letteratura, metrica, Novecento, oralità, performamce, poesia, ricerca, verso
CAT: Letteratura

2 Commenti

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  1. dionysos41 6 anni fa

    Ma quella è la Francia che ha inventato la poesia moderna! Niente di simile, mai, in Italia. Sull’articolo voglio il tempo di rifletterci.

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  2. lucavaglio 6 anni fa

    L’articolo è sulla poesia italiana e il quadro-discorso attuale (che ovviamente può essere integrato e ampliato, poiché non è possibile un articolo che dica tutto) è questo, verosimilmente. L’influenza di alcune esperienze francesi si vede ad esempio (non esclusiva, ma insieme ad altre esperienze e scritture) in certe scritture di ricerca, ma qui si parla di letteratura italiana, per quanto è possibile farlo.

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