Compagni, siete stati con Renzi sul Jobs Act: davvero potete rompere sul Senato?

17 Settembre 2015

Ci sono ottime ragione per separarsi, in politica, anche quando la scelta è evidentemente perdente. Sono le ragioni di principio, quelle che riguardano le cose in cui si crede più profondamente, e che hanno sicuramente a che fare con chi si rappresenta, si vorrebbe rappresentare, si dovrebbe rappresentare. Sono le ragioni che fanno (o dovrebbero fare) della politica un posto diverso rispetto agli stadi da calcio. Un luogo in cui una certa epoca è segnata da una temperie strutturale, culturale e sociale che fa vincere qualcuno e fa perdere, indefettibilmente, qualcun altro. In questo giorni si assiste ad esempio a un dibattito interessante che, apparentemente, riguarda un paese straniero, ed è l’Inghilterra di David Cameron e di Jeremy Corbyn. Si dice, da più parti, che la sinistra-sinistra di Corbyn, uno che sta nel partito da decenni e solidamente in minoranza per tutto il tempo in cui il New Labour di Tony Blair ha perseguito una terza via sempre più rassomigliante alla prima via del liberalismo classico, è destinata a sicura sconfitta, e questo basta a condannarla come una scelta sbagliata. Modestamente, provando a guardare la storia con gli occhi più lunghi di quelli che arrivano alle prossime elezioni o, peggio, ai prossimi sondaggi, la sovrapposizione immediata tra vocazione alla minoranza ed errore andrebbe prima o poi archiviata tra le analogie sbagliate. Non perché l’obiettivo, in politica come nello sport, non sia vincere. Ma mentre nello sport è l’obiettivo unico, e ogni persa è lasciata per sempre, nella politica la storia è diversa, più lunga: e si può anche accettare l’alta probabilità di perdere, domani, per seminare idee e rappresentanza che saranno maggioritarie o quantomeno decisive dopodomani. La storia delle democrazia è piena di queste “pazienze”, volontarie o subite, ed è piena di risultati che arrivano col tempo: in termini di successo politico e anche di legittimi interessi rappresentati. Per questo, archiviare Corbyn come macchietta destinata alla sconfitta, oltre che imprudente in termini di capacità predittiva, è miope rispetto alle ragioni della politica, e per cui, in senso alto, ci sono persone che a questa attività dedicano la vita.

Proprio la carriera politica di Jeremy Corbyn sembra illuminare – di senso e dissenso – alcuni passaggi della storia e della cronaca nazionale che attraversiamo qui, adesso, in un’epoca in cui l’erede della storia della sinistra italiana – il partito democratico nella versione mutante di Matteo Renzi – è egemone e solidamente al centro della scena. Perché in queste ore, dopo una lunga preparazione e lievitazione, potremmo essere vicini al momento dello strappo interno al partito democratico. La minoranza di Pierluigi Bersani e di un pezzo importante del vecchio establishment proveniente principalmente dal Pci, ma non solo, sarebbe pronta – dopo una lunga schermaglia parlamentare di cui risparmiamo la sintesi, ché quanti sono interessati la trovano facilmente ovunque – a far saltare il banco e a rompere il partito, e la maggiornaza, con conseguenze potenzialmente irreversibili (almeno nell’immediato) per il governo Renzi. I condizionali sono tutti d’obbligo, perché i numeri sono ballerini e gli umori anche, il presidente del Consiglio ha già detto che in caso di caduta del governo si va dritti al voto (la decisione però spetta a Mattarella, e vale la pena di ricordarsene a prescindere), e le trattative della politica romana sono sempre opache e vedono seduti al tavolo anche pokeristi che noi ci dimentichiamo sempre sul più bello. Tuttavia, presa per buona la minaccia e per solide le sue basi, vale la pena di ricordare quale sia la ragione della potenziale caduta del governo, della potenziale scissione nel partito, del potenziale cambiamento di verso della cronaca di questo tempo. E la ragione è la non-elettività del Senato. In definitiva, la modalità con cui viene scelta la cosiddetta camera alta della Repubblica italiana.

Un tema poco importante? Affatto. Una questione di poco conto per gli assetti istituzionali dell’Italia del futuro? Sicuramente no. E tuttavia, chi potrebbe davvero pensare che l’argomento della non-elettività del Senato sia davvero al centro dei pensieri, delle aspirazioni, delle ansie degli italiani? Chi potrebbe credere, in particolare, che i più deboli, quelli che la fine della crisi l’han sentito solo raccontare da Renzi e (ancora di più) dai suoi adepti, abbiano a cuore come ragione primaria della fine di un’esperienza politica e di governo il cambiamento delle modalità di nomina dei senatori della Repubblica italiana? Chi potrebbe in onestà pensare, insomma, che questa storia interessi i rappresentati – cioè i cittadini elettori – in misura anche solo lontanamente paragonabile a quanto interessa i rappresentati, cioè i politici, i parlamentari e gli stessi senatori? Diciamocelo: nessuno. Questa storia delle riforme istituzionali – messa al centro della scena da Renzi con una forza eguale e contraria alle resistenze e all’energie spese dai suoi oppositori interni – interessa davvero a poche migliaia di italiani che di mestieri fanno i politici, leggono avidamente i retroscena sui giornali per piacere o per dovere, di politica in un modo o nell’altro campano. Una piccolissima élite, che si allarga a sera sulle terrazze di Roma o, per estensione naturale o imperdonabile imitazione, nei salotti milanesi. Ma sono pochi, siamo pochi e in politica questo dovrebbe contare.

Dovrebbe contare, tanto più, per chi fa politica a sinistra, e da molti anni cerca, forse, ma di sicuro non trova il bandolo che riporta a parlare alle masse. E dire che di ragioni forti, solide, nobili per rompere da sinistra, Matteo Renzi ne ha offerte davvero tante. La più clamorosa resta il Jobs Act, una riforma sul lavoro legittima come lo sono in democrazia le idee e le politiche di destra, non tanto e non solo per l’impianto complessivo e per l’abolizione dell’articolo 18, ma per la facilità e l’economicità con cui la legge consente all’imprenditore di assecondare il ciclo economico, e anzi di far dipendere ogni sua decisione dallo stesso. Ma anche l’annuncio di un’avventata, forse insostenibile riforma della tassazione sulla casa, avrebbe dovuto – nel cuore di una sinistra orgogliosa e offesa – provocare un sussulto di dignità, visto che la scelta era di anteporre la rendita al lavoro e in subordine all’impresa, certo meno vicina agli antichi ideali di giustizia ma pur sempre più prossima della rendita immobiliare, tanto più in un’epoca in cui essere imprenditore, lavoratore e proletario sono spesso naturali sinonimi. E ancora, per arrivare ai confini di quell’altra sinistra, quella liberal socialista pur sempre così minoritaria, nel nostro paese, ci si sarebbe potuti a ragione imbizzarrire su quel sostanziale congelamento delle Unioni civili – è storia di ieri – barattate sull’altare della solita real politik, con l’aggravante che oggi per sopravvivere non si deve parlare con Fanfani, ma con Angelino Alfano. E invece no, queste e altre ottime ragioni di principio non sono bastate: c’è voluta l’elettività del Senato. Non altri aspetti, ben più delicati della riforma costituzionali firmata Maria Elena Boschi: proprio il numero dei politici della camera alta e il percorso che li deve portare lassù.

I più accorti – i lettori delle prime pagine dei giorni, quelle poche migliaia di lettori di cui dicevamo prima – se hanno avuto la pazienza di arrivare fin qui, avranno già pronta la giusta accusa di ingenuità. “Usano questo grimaldello” penseranno “per far saltare il blocco renziano, e il loro capo per primo. Per tornare senza vincoli da Mattarella, per riaprire il gioco, per vedere l’effetto che fa”. Magari, si dirà, per obbligarlo davvero alle urne con il Porcellum modificato dalla Corte Costituzionale, in arte “Consultellum”, e poi tornare su altri equilibri a negoziare, obbligandolo – se basteranno i numeri – a scegliere con chi allearsi, dopo il voto, e con altri poteri di voto. O forse, aggiungo, sperano che la botta sia di quelle che fa così male che una leadership che sembrava nonostante tutto solida sia costretta a un redde rationem duro, e magari fatale per lo stesso Renzi. Personalmente, e sicuramente posso sbagliare, non credo che questa via sia premiante se l’obiettivo è “far fuori” politicamente Renzi. Pur essendo un politico spregiudicato, abilissimo nel gioco politico del palazzo romano, senza alcuna pietà e nessuna fedeltà a idee declamate appena ieri, riuscirebbe a raccontare agli italiani – credo con successo – la storia del politico fatto fuori per giochini di palazzo, di poltrona, per dinamiche astruse e comprensibili solo ai vecchi arnesi. La cosa più grave, però, è che avrebbe buone ragioni da far valere.

Diverso sarebbe, sarebbe stato, sarà, se quelli della sinistra avessero, avessero avuto, avranno, la forza di una battaglia politica anche fatale su questioni solide, di principio e di rappresentanza di interessi ampi. Se sapranno fare politica portando nel palazzo lo scontento di tanti cittadini che, non a caso, non hanno più nessuna voglia di andare a votare, o guardano con attenzione – nonostante tutto – a partiti e movimenti che sembrano avere ancora l’ossigeno della realtà nelle loro vene. Doverse sarebbe, sarà, se chi non ne può più del decisionismo carismatico di Renzi saprà opporre un lavoro lungo, paziente di dialogo con pezzi di mondo del lavoro, dell’impresa, della società italiana, che a Matteo Renzi avevano guardato e dopo aver visto 80 euro piovere sulla testa di altri e sgravi fiscali distribuiti irrazionalmente a chi ha posizioni di rendita, e che dopo questi episodi se ne sono andati scuotendo la testa, delusi, ancora una volta. C’è un mondo che conosce i propri bisogni e rivendica i propri meriti, sa sulla sua pelle che non esiste più la differenza tra impresa e lavoro, sa che la pensione dei genitori è una boccata di ossigeno che piove dall’alto sulla base di criteri di massima irrazionalità. Solo per stilizzare un profilo, tra i tanti, di un mondo non rappresentato.

Insomma, c’è davvero un deserto da attraversare, e per definizione non è né breve né semplice. È un deserto che sta nell’Italia senza un modello di sviluppo, senza una politica industriale, senza un progetto che premi davvero quelli bravi e il futuro. Tutto questo non è arrivato da Renzi, e questo è grave, per mille e una ragione. Ma quelli che lo vogliono sgambettare sulla riforma del Senato lo sanno in che paese vivono? Lo sanno che sono solo l’altra, l’ennesima faccia di questa medaglia, della politica italiana che di tutto si occupa fuorché della realtà che dovrebbe rappresentare?

Ho finito. Scusate il disturbo: chiudete pure le finestre del Senato, e continuate in pace le vostre trattative.

 

 

TAG: maria elena boschi, Matteo Renzi, pierluigi bersani
CAT: Partiti e politici

Un commento

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  1. marcogiov 9 anni fa

    L’articolo, a mio modesto parere, ha un errore di fondo, quello di ritenere che il Jobs Act non sia “di sinistra”.
    La regolamentazione precedente ha affossato l’occupazione e ha protetto alcuni, a esaurimento generazionale, a scapito degli altri. L’errore del Jobs Act è del non essere applicabile ai vecchi contratti. Finché disgraziatamente non vincerà uno come Corbyn, i giovani italiani continueranno a migrare nel Regno Unito, dove nessuno ha privilegi ed esiste un mercato del lavoro. Come diceva Joan Robinson, è meglio essere sfruttati che morire per mancanza di sfruttamento, ma in Italia non è un’idea di sinistra, perché la sinistra è Chavez, è Varoufakis, come per Bergoglio la Chiesa è dei poveri e in un mondo senza poveri non avrebbe ragion d’essere. La sinistra italiana esiste per creare e mantenere miseria?

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