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Musica

La musica per dire l’oggi

di Dino Villatico
11 Aprile 2024

Dalla fine si può capire che cosa sia accaduto durante le due ore del concerto che Alexandre Kantarow ha regalato al pubblico di Santa Cecilia, a Roma. La Sala Sinopoli dell’Auditoriun Parco della Musica, per la stagione da camera dell’Accademia era piena. Il pianista francese attacca la Ciaccona che conclude la Seconda Partita in re minore di Johann Sebastian Bach trascritta per pianoforte da Johannes Brahms, che l’affida alla sola mano sinistra, in modo da rendere evidente anche sul pianoforte l’elaborazione contrappuntistica applicata a uno strumento, come il violino, fondamentalmente monodico. Tutta l’architettura del complessissimo brano è così affidata a una sola mano, la stessa che sulla tastiera del violino tocca le corde per articolarne i gradi dell’intonazione. Dopo pochissime battute nella sala si è già fatto un silenzio assoluto. L’intensità della scrittura bachiana trova una perfetta corrispondenza nell’intensità del canto che nasce dalle dita del pianista. La nitidezza del contrappunto è realizzata con precisione dalle dita che si muovono agili lungo i tasti del pianoforte. Ma c’è nel canto, e nel virtuosismo delle figure fitte, veloci, che animano il percorso delle melodie, una sorta di fuoco che trattiene la fiamma, una violenza espressiva che soffoca il grido, per costruire un viaggio dentro la costruzione stessa di come il canto si faccia voce di molte voci, intrico che si scioglie in unico, perpetuo, interminabile canto – se del dolore o del semplice stare al mondo, dentro la finitudine del mondo, come vorrebbe una tradizione che legge in questa musica un tombeau per la morte della prima moglie Maria Barbara, o se invece solo un fuggevole sguardo all’intrico del cosmo di cui l’intrico musicale sarebbe lo specchio umano, può saperlo solo chi l’ha scritto, ma l’ascoltatore, può darsi, ascoltando, si avventura in entrambe le regioni, quella del dolore incancellato che qui trova il senso del suo permanere, e l’orizzonte di quell’oltre, di quell’immensità che non sappiamo e che possiamo soltanto immaginare o supporre, e in cui con il poeta potremmo dire comunque ch’è dolce naufragarvi – disperso infine il suono dell’ultimo accordo, Kantorow resta con la mano sul pianoforte e il pubblico continua a tacere, non si ode un sospiro, nemmeno l’alito di chi ci siede accanto, nella grande sala. Poi, dopo un lungo minuto, o forse anche più, Kantorow toglie la mano dalla tastiera, il suo corpo si scioglie, abbandona le braccia che cadono ai fianchi. Esplode a questo punto un applauso fragoroso, assordante. Qualcuno grida: “Bravo!” Generosamente Kantorow concede due bis. Il primo è una trascrizione per pianoforte di un’aria del Sansone e Dalila di Saint Saëns, Mon coeur s’ouvre à ta voix, firmata da Nina Simone. Una confessione di partecipare all’entusiasmo del pubblico? Il secondo bis, però, ci riconduce alla ragione del concerto: la trascrizione per pianoforte che Liszt stesso fece della sua Mélodie il cui testo è il Sonetto 104 del Petrarca, “Pace non trovo e non ho da far guerra”. Anche qui, volendo, si può trovare un senso che, a ritroso, dà ragione delle musiche scelte per il concerto che vede proprio in Liszt il suo perno centrale.

Ma è cominciato con la Rapsodia op. 79 di Brahms, per un concerto dunque che comincia e finisce con il suo nome. Kantorow attacca la Rapsodia con piglio deciso, violento, la sua è un’interpretazione drammatica, anzi tragica della musica brahmsiana. Così come apparirà struggente, intensamente estraniata, nella trascrizione di Brahms, la Ciaccona di Bach. C’è chi ha detto che il programma di questo concerto voleva essere una sorta di ritratto del romanticismo, e in parte è vero. Brahms lo apre e lo chiude, ma un Brahms tragico e alla fine un Brahms che guarda indietro, a Bach, come a un paradiso ancora reale – di corrispondenza tra scrittura e “affetto”, prima di tutto, una scrittura che sa dire la realtà del mondo, proprio ciò che ormai a Brahms appariva sempre più difficile – e in mezzo lo sperimentalismo ancora inventivo di Liszt, dagli Studi Trascendentali, il 12°, lo Spazzaneve, e dagli Anni di pellegrinaggio, la Valle di Oberman, la musica dell’anelito irrealizzabile, e una pagina giovanile, ma già satura di futuro, come la prima Rapsodia di Béla Bartók e il girare a vuoto, ripetere gesti di un romanticismo che non ha più corrispondenze, della prima Sonata op. 28 in re minore di Rachmaninov. Tre anni dividono la pagina bartokiana, che è del 1904. da quella di Rachmaninov. del 1907, ma tanto è colma di fermenti la prima quanto sembra chiusa in vuoto guardare indietro e guardarsi dentro quella del compositore russo. Eppure è magnificamente costruita, e con rigorosissima coerenza. Ma è come se di quella musica, che ogni momento la musica di Rachmaninov fa ricordare, rievoca, si sia persa la ragione espressiva, il motivo per il quale si scriveva come si scriveva: resta il gesto, un gesto che non rinvia a niente. Non si tratta di problemi armonici. Anche Richard Strauss, anche Poulenc sono compositori tonali. Ma scoppiano di vitalità inventiva. Rachmaninov sembra ogni volta celebrare un’agonia che non arriva mai alla sua fine. Tuttavia: già, tuttavia c’è anche un’altra spiegazione. Ed è probabilmente il motivo per cui Rachmaninov incontra, ancora oggi, l’entusiasmo sempre acceso di un pubblico. Oggi, per fortuna, abbiamo deposto tra le ortiche l’idea che esista una musica progressiva, e sempre quella, e una regressiva, che sarebbero tutte le altre. C’è, però, un discrimine, tra la musica ch’è consapevole dell’oggi, e quella che non se ne pone nemmeno il problema. Richard Strauss, ma anche Prokofiev, e, ripeto, Poulenc, perfino il Poulenc di certe canzoni o del Concerto per due pianoforti, fanno circolare nella loro musica un’inquietudine che riconosciamo subito come l’inquietudine di oggi. Rachmaninov no. Sembra soffrire solo del rimpianto che non si può più scrivere come scriveva Čajkovskij. E compone con tessere già usate una musica che dovrebbe servire per altri usi. È questa distonia tra le intenzioni e il linguaggio con cui prendono forma a disturbare, a farci sentire inadeguata quella forma. Però: e se fosse proprio questa, oggi, la nostra situazione? Di non avere il linguaggio per dire l’oggi. Rachmaninov diventerebbe un profeta. Ci butta in faccia proprio la nostra incapacità di dirci, dà forma musicale al nostro sentirci estranei al mondo in cui viviamo. Allora il percorso del concerto di Kantorow diventa chiarissimo. E non a caso non lo chiude un brano di Rachmaninov, ma di Bach-Brahms. Più umile, l’esercizio della trascrizione potrebbe spiegarci perché non scriviamo più così, perché non possiamo più scrivere così. Anche i bis sono due trascrizioni. Di fatto, anche se, quanto a me, penso che il compositore russo che abbia meglio compreso lo stallo e abbia indicato la via per uscirne sia Šostakovič, non Rachmaninov, Rachmaninov resta tuttavia un nostro contemporaneo, forse perfino più di Šostakovič, ma non perché abbia trovato una via di uscita, bensì perché ci dice che non c’è via di uscita, che uscirne è utopia. Condannati al rimpianto, dunque, alla nostalgia? Goethe approverebbe. “Nur wer die Sehnsucht kennt / Weiß, was ich leide!” Solo chi conosce la Nostalgia, / Sa ciò che io soffro! Così scrive nel Wilhelm Meister, il romanzo della modernità, in cui già sono rappresentati i limiti e le sconfitte della modernità. Come Faust, Wilhelm scopre che cambiare il mondo è un’illusione, migliorarlo un’utopia. Ecco: io penso che Alexandre Kantorow, questo straordinario pianista appena ventisettenne, che quando suona sembra spiattellarci sotto gli occhi, nelle orecchie, la forma musicale, il suo farsi, il suo procedere, come pochissimi sanno fare, penso che Kantorow ci abbia voluto far prendere consapevolezza di questo percorso, non solo della musica, ma della cultura moderna, che dai romantici a oggi conosce solo sconfitte, resti ancora un percorso che ignora la sua meta, non conosca dove debba andare a finire sé stesso: finire, nel senso suo più pieno di completare. Brahms-Bach: la sola mano sinistra, un’opera di riduzione, di ritorno al nodo, all’essenziale? Sgomberare il terreno da tutto il superfluo, anche il supefluo che apparentemente ci confortava, come la musica che sembra sgorgare dal cuore? Ma il punto sta proprio lì: che sembra, non che sgorga. Poche musiche sono artificiali, menzognere, fallaci come la musica di Rachmaninov. È questo che cerchiamo, che vogliamo, una consolazione qualunque? La verità ci spaventa? Perché invece forse la verità sta proprio in quel Bach-Brahms o Brahms-Bach. La consapevolezza di trascrivere. Rifiutarsi d’inventare castelli di carta. O avere il coraggio, come Liszt, come Bartók, di rischiare un deragliamento. Quale via questo percorso ci suggerisce più adatta all’oggi? Quella dell’illusione o quella della consapevolezza? Pace non trovo e non ho da far guerra, l’ultimo bis.

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