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Enti locali

Le regioni reali che non ci sono e quelle irreali, che ci sono

di David Bidussa
19 Gennaio 2015

Dodici regioni al posto delle attuali venti, una divisione che prevede una macro regione metropolitana (Roma), 3 regioni che rimangono nelle attuali fisionomie territoriali (le due isole e la Lombardia) e 8 macroregioni che a vario titolo ridisegnano la cartina amministrativa del Paese. La notizia di una probabile riduzione del numero delle Regioni, dunque di un loro accorpamento, non è una cattiva notizia.  E’ un tema che in Italia è presente più o meno da almeno venti anni, da quanto la Fondazione Giovanni Agnelli,  propose nel 1993 una sua riforma della “forma dello Stato”. Il problema è che se tutto nasce essi incardina intorno a un insieme di ragioni “fredde”, allora sarà ben difficile che si vada da qualsiasi parte. Quali sono le ragioni “fredde”? Semplicemente quelle che sono state presentate come preliminari non solo dai proponenti, ma anche da chi nell’immediata si è messo in pubblico a riflettere sulle ipotesi di ridisegno degli assetti regionali. Il progetto vuole preliminarmente rispondere a un principio di risparmio di cassa, comunque è volto a favorire un contenimento dei costi. Ottimo principio. Peccato che se è solo questo il rischio che intravedo sia l’ennesima ingegneria istituzionale cui segue come replica l’innalzamento degli egoismi territoriali. Un modello che in Italia funziona dai tempi dei moti per Reggio capoluogo, ma anche quelli più nordisti di Monza capoluogo di provincia. Perché se davvero si tratta di dividere il primo elemento che dobbiamo ripensare non è più quello che per molti anni ha mosso le pulsioni territoriali e localistiche, ma quello della possibilità di pensare un riassetto all’interno di una diversa carta geografica dell’Europa. In breve. Alle ragioni “fredde” di conti e dei risparmi, ovvero delle tabelle devono seguire le ragioni “calde” della geografia economica. Significa considerare le fisionomie dei distretti industriali, con quelle dei percorsi di distribuzione, e quelle delle reti dei servizi collegati. Reti che spesso si collocano a cavallo tra diverse regioni amministrative e che comunque non si ritroverebbero nemmeno nel nuovo assetto proposto che ancora è troppo dipendente dal localismo e dal campanilismo.  Insomma guardando oltre la regione amministrativa. Ma oltre a queste ragioni calde non sarebbe improprio iniziare a riflettere sulle ragioni della volontà che oggi corrispondono sempre di più a pensare dentro una carta europea che scardina o ripensa le divisioni statali tradizionali. Ancora con un ritardo che ormai rischia di diventare irrecuperabile ripensare le regioni amministrazioni dovrebbe voler dire anche attraversare i confini dello “Stato-nazione” e guardare a quei territori di circolazione monetaria, di spazi del consumo che spesso stanno a cavallo dei confini tradizionali degli Stati. Ripensare oggi i sistemi regionali non avrebbe anche un senso rispetto a una diversa geografica economica, dei lavori e dei consumi quotidiani, dell’Unione Europea? Non sarebbe anche questo un modo di pensare l’Europa uscendo dallo schema (e spesso dal lamento) di una realtà il cui unico collante è un’unica divisa monetaria, per di più a basso tasso fascinatorio?  

regioni
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