Dopo Mario Draghi, arriva Enrico Letta. I due eventi, i due nomi, non sono disconnessi tra loro, anzi. Non contano qui le somiglianze antropologiche e politiche, che pure sono tante: l’aria compassata, la perfetta conoscenza degli establishment italiani ed europei di cui sono a pieno titolo parte, la formazione democristiana in senso lato, la romanità originaria o acquisita. Ma qui non conta tanto questo, quanto la contingenza che porta entrambi a ruoli di primo piano, a distanza di qualche settimana l’uno dall’altro.
Di Draghi abbiamo già ampiamente detto. Il suo governo sostanzialmente unanime nasce come ultimo, disperato tentativo di ridare una forma a una classe politica che solo stando al potere sa spiegare almeno a se stessa chi è, dopo aver ammesso che senza aiuti (o vincoli) esterni non sa stare in piedi. Ma il caso di Enrico Letta che diventa segretario del Pd così, all’improvviso, sostanzialmente per acclamazione, merita due parole in più.
Dopo la famosa cacciata del 2014 – certo voluta da Matteo Renzi, ma sostanzialmente avallata, se non invocata, anche da chi poi di Renzi fu oppositore interno – Letta si allontanò con discrezione e sapienza dalla scena politica. Pochissime interviste e uscite pubbliche sulla politica italiana, una cattedra a Parigi, e tanto silenzio. Sembrava destinato a non romperlo più attendendo, proprio come Draghi e come tutte le vere riserve della Repubblica, una chiamata a nobilissimi incarichi. Incarichi di salvezza nazionale, si direbbe.
Per Draghi la chiamata è arrivata, a Palazzo Chigi, con vista “naturale” su Quirinale che dovrebbe cambiare inquilino all’inizio del 2022. Sicuramente meno centrale nel potere di oggi, ma non certo irrilevanti negli equilibri di domani, la chiamata arrivata a Enrico Letta. Già, perché, a ben guardare, questa per il Pd – cioè per il partito che comunque è stato il perno debole ma stabile del sistema politico negli ultimi 13 anni- rischia di essere l’ultima chance. Un fallimento dell’operazione-Letta, infatti, oltre a trascinare nel gorgo una delle ultime figure spendibili ad ogni livello, rischia anche di rappresentare la pietra tombale su un partito che ormai lotta per dimostrare, anzitutto a se stesso, che valeva la pena di essere fondato. La partenza, da questo punto di vista, è già complicata, visto che questa segreteria nasce smentendo il sistema di regole e procedure di partecipazione popolare – le primarie – finora ritenute imprescindibili. Nasce nel segno dell’unanimismo degli organismi dirigenti, e senza un vero dibattito sulla piattaforma. Difficile dibattere, del resto se il candidato è uno, come lo è il suo programma. Letta conosce quel partito come le sue tasche, e a differenza di altri, lo ha conosciuto a proprie spese. Basterà? Basterà la coscienza della distanza da un paese stremato, sempre più dissimile dal centro di Roma o di Milano, per iniziare a colmare quella distanza stessa? E ancora, e forse soprattutto: riuscirà un partito burocratico e che non sa pensarsi se non al governo a uscire dall’eterno gioco di ruolo, che porta a fare sempre la stessa cosa? L’ennesima rosolatura a fuoco lento del leader, anticamera dell’ennesima pugnalata a freddo, sarebbe esiziale, e concluderebbe per sempre il tentativo che si chiama Partito Democratico. Poi, ognuno faccia i suoi conti e anche i suoi auspici. Qui siamo laici, ma questo è.
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Assolutamente condivisibile, una verità incontrovertibile
Caro Jacopo, secondo logica dovrebbe essere così come scrivi. Ma col Pd siamo sempre alla penultima spiaggia. C’è un partito degli eletti che preferisce la morte per consunzione alla presa d’atto del fallimento del progetto Pd ed alla ripartenza su basi nuove. Se così non fosse avrebbero riconosciuto da tempo che, come è evidente, non si tratta di una buona idea realizzata male, ma di un’idea sbagliata.