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Partiti e politici

Nel disinteresse più totale del paese

di Jacopo Tondelli
17 Settembre 2019

Ci sono molti modi per valutare e analizzare la scissione di Renzi, la nascita di nuovi gruppi parlamentari che a lui fanno capo, oggi, e di un nuovo partito che avrà lui come capo domani. È sicuramente l’epilogo di un lungo travaglio, di rapporti politici e personali logorati da tempo, di sconfitte e tensioni maturate negli anni, di un percorso iniziato con la prima sfida delle primarie del 2012, passato per gli anni renziani, le scissioni a sinistra, i tentativi di ricomposizione e, infine, la scissione verso il centro. Ma è anche, per stare alla microstoria, l’esito di un’epoca molto più breve: quella aperta da Matteo Salvini al Papeete, con la crisi di governo e la richiesta di pronte elezioni e pieni poteri, e sfociata nella maggioranza più improbabile degli ultimi decenni, creata su spinta di Renzi e guidata dallo stesso presidente del consiglio di poco prima. Alla fine di questo tragitto, durato poco più di un mese, o di quell’altro, molto più lungo, possiamo mettere lo stesso evento: la nascita del Partito di Renzi. Che si colloca, logicamente, alla fine di una stagione di guerre e ripicche e sgarbi e sgarri all’interno della sinistra italiana. E alla fine di un’estate che ha elevato ancora un po’ – e non era facile – il tasso di trasformismo consentito alla politica italiana.

Il problema, da qualunque lato lo si guardi, è che questo finale di partita è solo, semplicemente coerente col tono profondo di entrambe le partite. Due partite che hanno fatto emergere, a fasi alterne, con minore o più chiara intensità, la distanza siderale, apparentemente irredimibile, tra il ceto politico e la società, tra le esigenze dei politici e quelle percepite come vere dal paese. Per anni a sinistra si è discusso in teoria di questioni ideologiche e ideali, di quanto di sinistra e quanto di centro servisse essere per cambiare il paese: in pratica si è discusso di quale gruppo dirigente dovesse egemonizzare il partito, scegliere i candidati, nominare governo e sottogoverno. Per qualche giorno soltanto – più tempo non c’era… – si è invece discusso di come e se il Pd dovesse o non dovesse fare un governo con gli odiati Cinque Stelle e viceversa. Siccome era già deciso che la risposta fosse sì, senza neanche passare dal via, si è passati a discutere serenamente su quanti ministri a chi, quali sottosegretari, quali poltrone, dove, quando, come, fatte con quale tipo di pelle. Alla fine, poi, arriva una scissione che serve sostanzialmente a creare una sfera di influenza nuova, a negoziare un peso negli equilibri, a tenere sulla corda un presidente del Consiglio neo rieletto, a gettare le basi per un partitino di centro scommettendo sull’eterna araba fenice della politica italiana, quei “moderati” che stanno tutti in un fazzoletto di qualche punto percentuale che tutti vogliono, tantissimo, chissà perché.

Resta, incancellabile, la sensazione che questo passaggio rafforzerà un sentimento che non sembrava facile da rafforzare: quello del distacco dalla politica. Anzi, del disprezzo per la politica, per chi governa e amministra il potere. E così, anche chi si è trovato all’opposizione per un suo clamoroso sbaglio (chi scrive propende ancora per quell’ipotesi) potrebbe scoprirsi beneficiato degli sbagli altrui. Una risorsa su cui la destra italiana sa sempre di poter contare.

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