La mancanza di senso della misura nel braccio di ferro interno al Pd

11 Aprile 2015

Nella sua breve storia il Pd non è mai stato così forte, in termini di consensi elettorali, come in questo ultimo anno. E, contemporaneamente, non è mai stato così litigioso e poco coeso. Sia nelle sue interazioni interne che, in maniera evidente, nell’immagine che tende a dare all’opinione pubblica. O, forse, che una parte del partito vuole dare al paese. Non che in passato le cose fossero sempre idilliache, quanto meno nella sua componente post-comunista.

Tutti ricordano le frizioni tra Veltroni e D’Alema, direttamente o per interposta persona, o i tanti litigi nella coalizione di centro-sinistra tra l’anima più moderata e quella più massimalista, tra Prodi e Bertinotti, o tra la Margherita e i Ds. Ma allora, almeno, si trattava di una importante fase di passaggio, dell’assestamento di una proposta politica che doveva fare i conti con un mondo nuovo. Sia nel nostro paese, nel post-Tangentopoli, che nel mondo occidentale, dopo la caduta del Muro. Insomma, qualche giustificazione c’era e poi, in fondo, si trattava di capire quale fosse la strategia migliore per cercare di sconfiggere Berlusconi.

Oggi, invece, gli storici nemici sono piuttosto deboli. Come ho scritto settimana scorsa, le forze anti-Pd di questi tempi arrancano non poco, nel loro tentativo di dipingersi come alternativa credibile. E allora: perché? Possibile che questa conflittualità sia tutta dovuta alla presenza di Renzi? In fondo, il Pd oggi è forte proprio grazie alla svolta provocata dall’attuale premier e forse, dal punto di vista strategico, sarebbe più opportuno per il partito assecondarlo per sfruttarne meglio l’abbrivio, per stabilizzare la forza attuale, sedimentandola nel tempo. Ma così non è. Anzi: ogni cavillo è buono per enfatizzare le differenze.

Prendiamo ad esempio l’Italicum. Una legge elettorale non perfetta, su questo non ci sono dubbi, con alcuni nodi non risolti. Ma le epiche polemiche che la proposta ha provocato sono talmente esagerate, fuori dalle righe, da indurre a pensare che siano solo dei meri pretesti per fomentare litigi, da una parte e dall’altra. La questione delle preferenze poi rasenta il ridicolo: sia da chi le difende quasi fossero il baluardo della democrazia (come se poi i candidati venissero scelti effettivamente dal popolo…), sia da chi le nega per evitare chissà poi quale possibile contro-potere.

Pare proprio un costante braccio di ferro, tra minoranza e maggioranza del Pd, o anche tra le diverse minoranze, per dimostrare al mondo (?!?) da che parte sta la ragione assoluta. Tra chi si mobilita contro la nuova dittatura di Renzi e chi lo considera il vero innovatore della politica italiana, dopo anni di immobilismo, quel che sembra mancare a tutti è unicamente il senso della misura. Tutti immersi nella auto-percezione che il futuro dell’Italia dipenda da quei cinguettii, o da quelle beffarde dichiarazioni giornaliere al Tg di turno.

Il Jobs Act diventa allora il ritorno alla schiavitù del lavoratore, per gli uni, oppure l’unico mezzo per rilanciare l’occupazione del paese, per gli altri. I toni si alzano per le più insignificanti questioni, ipotizzando che da quelle si costruiranno le basi di un mondo nuovo. Ognuno rinfaccia all’altro di non voler ascoltare, di non voler collaborare. Perché si litiga nel Pd, dunque? La ragione più profonda è che, forse, tutti vogliono dimostrare agli altri (pochi intimi) di essere loro i veri depositari della ricetta per salvare la patria, dimenticandosi poi di costruire qualcosa che serva davvero al paese reale. Che sta altrove, lontano. Come diceva Gaber, la realtà è più avanti…

TAG: partito democratico, politica
CAT: Partiti e politici

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