Le elezioni austriache ci ricordano che il 25 Aprile serve, ma non basta più

24 Aprile 2016

Ogni anno che passa ci allontaniamo dal tempo in cui il 25 Aprile era, anzitutto, un giorno in cui i testimoni diretti di quei drammi che furono il fascismo e la guerra raccontavano quel che vissero, e l’epopea della liberazione. Ogni anno che passa i testimoni sono meno, e presto non ce ne saranno più. Gli storici e gli educatori della memoria lavorano, meritoriamente, per tenere vivo il filo di coscienza pubblica, di racconto, di uso pubblico della storia e della memoria stesse. Perché una data centrale del calendario civico nazionale, fondativa di quello che siamo, ha bisogno di essere tenuta viva anche se, quelli che c’erano, sono tutti morti. Non sarà facile, già lo sappiamo, tanto più che lungo i decenni il dibattito politico e cronistico attorno al 25 aprile è diventato, sempre più spesso, l’occasione asfittica per misurare il proprio recinto, per raccattare qualche voto, per coagulare attorno a sé qualche piccola polemica e qualche misera visibilità che non aveva il passo della cronaca, figuriamoci quello della storia.

È quasi una fortuna, per quanto sinistra, che proprio alla vigilia di questo 25 aprile del 2016, 71esimo anniversario della Liberazione, cada il risultato del primo turno delle elezioni presidenziali della nostra vicina Austria, drammaticamente e solidamente legata al destino storico del nostro paese. Ha vinto, con oltre il 35% il candidato del FPÖ (Freiheitliche Partei Österreichs) Norbert Hofer e andrà al ballottaggio, dal quale uscirà il prossimo presidente, con oltre 15 punti percentuali di vantaggio su chi segue. Il risultato, dicono i giornali italiani, sarebbe sorprendente perché non lo si immaginava così forte, anche se era certamente candidato ad arrivare al secondo turno.

Vince un partito di estrema destra guidato da un leader giovane, moderno, che mette in bella mostra una biografia che parte dal lavoro giovanile nella Lauda Air e poi vira molto presto sulla politica professionale nella file della destra identitaria, antieruopea, in definitiva xenofoba. I punti principali della sua retorica, sintetizzati in modo esplicito sul sito di Hofer, sono la stanchezza di un paese assediato dagli stranieri, stufo di chinare il capo e di regalare il suo welfare ai migranti. Un paese che ha già pagato abbastanza care le colpe del suo passato, e che non ne può più di umiliazioni: che essere arrivino dall’Europa, anzitutto, o da altre organizzazioni o accordi internazionali, come il TTIP, è poi lo stesso. L’orgoglio nazionale è l’ingrediente di fondo; gli stranieri invasori, approfittatori, usurpatori il nemico di tutti i giorni; l’Europa e il mondo i grandi orchestratori del disegno contro il piccolo paese già troppo umiliato e deriso. Vi ricorda qualcosa, no? Qualcosa che abbiamo studiato sui libri di storia e qualcosa che sentiamo molto spesso anche nella nostra lingua, anche ai nostri giorni.

Il dato che emerge da questo voto, tuttavia, non è solo austriaco, ma prettamente europeo. E quindi ci riguarda quanto non mai. Perché il risultato austriaco, che deflagra nel pieno di una nuova recente ondata migratoria che ha visto proprio il confine austriaco come teatro della tragedia, della speranza e in definitiva della sconfitta europea, è un risultato che rischia di capitare ovunque, perché le radici che lo hanno generato affondano sotto la pelle di mezza Europa. Lo dicono, del resto tutti i più recenti risultati elettorali del continente, che hanno visto in generale una crescita – in alcuni pochi casi, come in Austria, già un trionfo – delle destre estreme, xenofobe e antieuropee. E il sospetto che il processo sia solo all’inizio, che sia destinato a crescere, che possa manifestarsi su scala più ampia, pare fondato tanto che forse una rfilessione non stereotipata o propagandistica dovrebbe riconoscere una funzione salutare, in questo quadro, a movimenti populisti di ispirazione mista (o confusa) come sono i 5 Stelle. La loro stessa presenza, forse, impedisci al malcontento di gonfiare oltremisure movimenti di isplicita ispirazione xenofoba, che pure non mancano nel nostro paese.

Se questo è il quadro in cui ci muoviamo, tuttavia, è la storia che abbiamo davanti ad essere ad oggi nebulosa e confusa. Non è solo o tanto una questione di alchimie politiche. Ma anche e soprattutto, forse, di strumenti culturali con cui si formano e si formeranno le cittadinanze. È tempo di ammettere che la semplice professione di fede democratica e antifascista, sufficiente seppur non particolarmente elaborata per molti decenni, non basta più. La pregiudiziale antifascista non basta più a convincere la popolazione, da un lato, ed è facilmente smontabile da chi ne dovrebbe venire escluso. Perché se è vero che in tanti casi la lingua dei movimenti delle nuove destre europee sembrano parlare la lingua del passato, è altrettanto vero che in essi c’è una “contemporaneità” mimetica e veloce che consente, facilmente, di rispedire l’accusa di fascismo a casa. Perché acqua e generazioni son passate sotto i ponti, e il ricordo delle tragedie del Novecente – partivamo da qui – non hanno più testimoni diretti in ogni casa. Perché – ed è un dato da non sottovalutare – il migrante e il profugo sono spesso facilmente sovrapposti con l’estremista islamico, l’attentatore di Parigi o Bruxelles, il parafascista dell’Isis. “Ci sono i tagliagole fanatici dell’Isis che vogliono conquistare l’Europa, e i fascisti saremmo noi che vogliamo solo difenderla?”. La domanda sarà anche di propaganda, ma la sua destrutturazione non è rapida, né indolore.

È dunque in questo quadro che servirebbe, all’Europa e a tutti noi, una classe dirigente cosciente della sfida, capaci di ricordare le tragedie da cui veniamo, accorta nel capire quelle che ci possono aspettare, e di dialogare con una classe intellettuale in grado di strutturare, con la pazienza che ormai sempre manca ai politici, sempre appesi al prossimo sondaggio o all’ultimo tweet, di ricostruire i tessuti di un linguaggio. E poi, ecco, la palla è già passata a ciascuno di noi. Non litigare su un autobus, diceva un grande filosofo, è già un omicidio. Ricominciamo a farlo, ricominciamo a parlare la lingua della ragione, senza snobismi e con la speranza che anche solo un dubbio instillato rende meno fragile il mondo. Così, avremo fatto la nostra parte per allontanare il baratro, oppure, affacciandoci, potremo liberamente, serenamente, con la coscienza a posto, dichiarare battaglia a chi ci ha portato fin lì.

E buon 25 Aprile a tutti.

TAG:
CAT: Politiche comunitarie, Storia

Un commento

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  1. enea-melandri 8 anni fa

    Bellissime a questo proposito le parole del Presidente della Repubblica Mattarella http://fareprogresso.it/vedi_fp_full.php?id=2483&ref=sg

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