Letteratura
V come virus e vaccino
Nato a Leeds nel 1934, il drammaturgo e sceneggiatore Alan Bennett è noto per lo humor tagliente che caratterizza le sue pièce teatrali (le più famose rimangono La pazzia di Re Giorgio del 1991 e Gli studenti di storia del 2004) e i pamphlet, in cui vengono stigmatizzati ipocrisie e compromessi della società occidentale contemporanea. L’ultimo suo lavoro, pubblicato nella collana Microgrammi di Adelphi, consiste in un diario scritto durante la pandemia del Covid. Diario polemico già dal titolo: Arresti domiciliari. All’effettiva tragedia che per quasi tre anni ha tenuto il mondo sull’orlo della catastrofe sanitaria, minacciandone oltre che la salute fisica quella mentale, si è infatti aggiunto il flagello di una comunicazione mediatica ossessiva, morbosa, ansiogena, dai risvolti spesso ridicoli, che il sarcasmo dell’autore, acuito dall’acredine dei suoi quasi novant’anni, non manca di sottolineare.
La proverbiale unghiata del vecchio leone in questo libretto si limita ad alcune riuscite battute: “14 marzo, Da buon over 70 sono ufficialmente esortato a starmene isolato e in casa. Il mio normale trantran adesso ha l’endorsement del governo”, “10 aprile, Venerdì Santo, quest’anno Pilato non è il solo a lavarsi le mani”, “15 maggio, Le mie mani non mi sono mai piaciute molto. Ora, ultralavate come prescritto, sono quasi inguardabili: lucide, venose, trasparenti come un’illustrazione anatomica”, “31 dicembre, Purtroppo la malattia e il rimedio iniziano ambedue con la «v» e, visto che a ottantasei anni (chiedo scusa) li confondo, in testa alla coda per il vaccino dico che devo fare il virus – comincia anch’esso con la «v»”.
È invece una malinconica tenerezza il sentimento che prevale nella narrazione: compassione verso di sé e verso gli altri, indulgenza per i piccoli sotterfugi cui la comunità di amici e vicini di casa è costretta per non sottostare ai diktat governativi, benevolenza nei riguardi di luoghi abbandonati nella solitudine, rimpianto per il passato. I ricordi si fanno pressanti, quando si è impediti ad affrontare le giornate con i ritmi e gli impegni di prima dell’epidemia. Memorie infantili improvvisamente tornate incalzanti: il timore materno per l’unico contagio ritenuto pericoloso in passato, quello della tubercolosi; le insopportabili sedute dal barbiere; il rito della pesca domenicale cui il padre obbligava tutta la famiglia. Un padre macellaio amato e temuto dai figli, e ricordato con stima dai vicini, secondo l’impertinente affermazione che uno di loro aveva rivolto al famoso scrittore: “Pazienza se è famoso, lei. Non varrà mai come suo papà”.
Ma anche ricordi più recenti, come le prove teatrali, i bisticci con gli editori, le morti degli amici, un deludente incontro con Graham Greene (“la sua mano fu la più molle che avessi mai stretto”), e le caustiche considerazioni politiche sulla monarchia inglese e la Brexit, su Trump e Biden, sull’insulso Boris Johnson: “È un pessimo oratore e parlatore in generale, fa quasi pena”. E poi il deprimente momento attuale, con i problemi fisici che impongono allo scrittore “una vita sempre più medicalizzata”: l’artrite, il bastone cui appoggiarsi, l’apparecchio acustico, la rinuncia alla bicicletta. Il Covid permette solo qualche incontro sporadico nel parco vicino a casa, brevi colloqui da un marciapiedi all’altro, nessun girovagare tra i negozi dei rigattieri: Rupert, il compagno di Alan Bennett, non deve più uscire per recarsi all’ufficio, fa pilates collegandosi a Zoom, e quindi può dedicarsi a lui con tutta la dedizione possibile. Gli taglia i capelli, gli prepara il tè, lo accompagna nelle passeggiate, lo distrae con conversazioni spiritose. Leggono libri, commentano i programmi televisivi, sono rassegnatamente “agli arresti domiciliari”, reclusi insieme.
ALAN BENNETT, ARRESTI DOMICILIARI – ADELPHI, MILANO 2023, p. 63
Trad. di Mariagrazia Gini
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