Storia

12 dicembre. Ogni anno punto e da capo

10 Dicembre 2017

Come l’orologio della stazione di Bologna fermo dopo l’esplosione del 2 agosto 1980 il 12 dicembre è a suo modo un tempo fermo della storia italiana.

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Ha scritto di recente Gad Lerner che il 12 dicembre 1969  non solo segna il corso della storia italiana, ma differenzia il caso italiano dal resto dei paesi e dalle società aperte che hanno vissuto il ’68: mentre in realtà  comeFrancia, Germania, Stati Uniti, per esempio,  una parte di quella generazione che espresse il conflitto sociale e culturale, tra generazioni ha avuto poi la possibilità di essere classe di governo,  così non è stato per l’Italia.

“Se altrove – scrive Lerner – alcuni di quei leader sono diventati statisti o comunque hanno fornito un contributo importante alle scelte nazionali, in Italia di quella generazione il potere ha cooptato soltanto componenti mediocri (me compreso). I veri talenti sono finiti in carcere, ripiegati nell’estremismo, suicidi, isolati culturalmente. Ho l’impressione che la data fatidica del 12 dicembre 1969 abbia una forte relazione con questo dato di fatto”.

Non ne sono così convinto. La possibilità di diventare classe politica e di essere classe di governo dipende da molti fattori non ultimo da un sistema che costruisce i percorsi di formazione di una classe politica. Da questo punto di vista la realtà  italiana, più che la storia di un interdetto,  è la storia di un sistema che funziona per cooptazione in tutte le proprie famiglie politiche, al governo come all’opposizione.

Comunque, anche considerando questo fattore il 12 dicembre non chiama in causa solo la possibilità o meno di un ricambio politico.

La sfida culturale, ma anche emozionale, che abbiamo di fronte ancora  oggi è tornare a fare i conti con i nodi non sciolti della storia italiana recente. L’Italia delle stragi è ancora lì, a non avere  ricevuto un risposta adeguata in termini di chiarezza e continua ad  essere un terreno di divisione.

Dipende da molte cose, secondo me, non solo dai dati che non sappiamo, ma anche dal modo in cui ci rapportiamo al nostro passato recente.

Nella storia italiana coraggio, (rottura pubblica dei tabù e dei molti non detti) e furbizia (che qui intendo come radicalizzazione presunta di quell’intenzione dichiarata, in realtà volontà di azzerarla e annullarla) spesso si accompagnano specularmente.

Propongo di considerare le domande che uno storico deve porre a chi voglia per davvero comprendere la realtà politica, culturale, sociale di un decennio, e che presuppongono che quel decennio non sia più solo raccontato dalle pratiche della memoria. Un decennio – gli anni ’70 – che prima ancora di essere raccontato in tempo reale, è stato raccontato dopo dai pentiti, dagli inquirenti, forse dalla televisione, in alcuni casi dal cinema, e in tempo reale da alcuni fotografi, ma non dagli storici, comunque non storiograficamente.

La domanda non è solo perché sia così difficile affrontare la storia degli anni del terrorismo, bensì che cosa implica proporsi di scriverla. Preliminarmente direi che occorre liberarsi dal fascino del ricorso agli arcana imperii, un richiamo che non è solo sullo specifico tema, ma che domanda allo storico o all’analista del passato di svolgere una funzione didattica, pedagogica anche per il dopo. Ovvero di lavorare per rimuovere le cause che periodicamente fanno tornare in auge la dimensione complottista della spiegazione storica, un dato in cui ancora oggi noi siamo profondamente immersi e che è anche l’effetto non solo della profondità dei luoghi comuni, ma anche del modo in cui si è discusso di storia, anche a sinistra, negli ultimi trenta anni, spesso affrontando la spiegazione della storia come narrazione “controstorica”, “indiziaria”, “ipotetica”.

Il problema è quali temi è necessario indagare per affrontare una storia del terrorismo che non sia solo una serie “piccante” di storie o intrigante dove viga il modello narrativo del Conte di Montecristo, ovvero non solo complottista ma da “romanzo popolare”. All’origine di quella difficoltà stanno dunque alcune questioni di carattere generale. Provo a elencarne alcune.

(1) Per scrivere una storia in cui sono implicate non solo alcune parti politiche – per quanto topograficamente dislocate sull’intero asse destra-sinistra – ma sono coinvolti anche segmenti rilevanti o comunque non secondari degli apparati dello Stato, lo Stato deve appunto dichiarare che rinuncia lui, in prima persona, a scrivere quella storia. Ovvero che abbandona la pretesa che sia lo Stato a raccontare lo Stato.

(2) Quanto enunciato al punto (1) vale anche per i brigatisti, e gli ex-terroristi. Essi sono “fonti”, ovvero sono oggetti e non so soggetti della ricerca. Significa che ciò che affermano o scrivono, non è la storia, ma costituisce un documento per scriverla.

(3) Occorre una politica della gestione dei documenti, della loro declassificazione, dell’apertura dei dossier che non ha mai coinvolto le pratiche dell’amministrazione pubblica o delle istituzioni nella storia italiana.

(4) Il vero non è deducibile solo dalle carte archivistiche o dagli archivi, ma intorno alle carte d’archivio è possibile definire il “certo”. Per quante ricerche verranno fatte non avremo mai tutte le carte. Questo non deve indurci a dichiarare l’impossibilità di ricostruire tutto ciò che avvenne, ma ci deve far riflettere sul fatto che una soglia minima è raggiungibile.

(5) Sul limite delle carte e della loro reperibilità o leggibilità pesano oggi molte cose. C’è un rapporto intrinseco tra “archivio” e segreto. Questo rapporto un tempo era appannaggio esclusivo del Principe o del suo segretario (secondo una dinamica del potere propria dell’età barocca). Oggi il quadro è anche più complicato. Nella nostra “età attuale” i limiti degli accessi agli archivi hanno assunto una doppia motivazione: la tutela dei segreti di Stato – i quali, finché esisteranno gli Stati non è pensabile che scompaiano – e il rispetto della privacy dei cittadini. In breve i segreti che proteggono il principe dai cittadini e i segreti che proteggono i cittadini dal principe, nonché dagli altri cittadini.

(6) Occorre considerare la “geografia” del terrorismo in Italia. Ovvero la necessità di indagare studiare non il fenomeno solo in relazione all’organizzazione, ma al suo radicamento e continuità sul territorio. Il terrorismo e la lotta armata non sono state equamente distribuiti sul territorio nazionale hanno riguardato specifiche aree del paese in alcuni luoghi hanno avuto altre intensità – p.e il Triveneto, Genova, Torino, o Milano, o Roma – e dunque ricostruirne la storia è anche occuparsi non solo di una storia delle teorie politiche astratte, ma anche della storia sociale mentale e culturale di aree specifiche del Paese.

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(7) Storie di vita delle vittime e dei loro famigliari. Da una parte è vero che essi sono stati attori passivi e “giocati” in una vicenda che spesso li ha visti poi esclusi nella scena della memoria pubblica successiva; dall’altra va anche ricordato che essi non costituiscono una massa omogenea e compatta. Ciascuno è entrato ed è uscito da quella storia in relazione alla proprie convinzioni precedenti, alla storia famigliare, alle idealità politiche cui si sentiva legato, all’ambiente culturale in cui dopo ha avuto modo di tornare a riflettere.

(8) Nella stagione che succede al ’68 – la militanza politica ha un carattere diverso da quella che la precede. Nel corso del ‘900 il militante politico risponde a una domanda di bisogno e la scelta della propria famiglia politica riguarda che cosa si investe in termini di adesione in relazione alle domande che si hanno. A partire dal ’68 la militanza politica – ma anche quella nel volontariato o nel sociale – corrisponde a un “desiderio”. Non le questioni di vita materiale danno corpo a quella scelta, ma la proiezione del domani. E’ anche per questo che la sconfitta che passa con il terrorismo e dopo la sconfitta della lotta armata produce un esito diverso anche in chi quella scelta non ha condiviso – tanto a destra come a sinistra, e tuttavia non riesce a uscire da una condizione di orfanità della politica. Appunto perché quell’esperienza non corrispondeva a un bisogno e dunque non si misurava sulle cose ottenute, sui risultati mancati o sui compromessi, ma si fondava sul desiderio, sull’immaginario. Viveva dell’investimento emozionale. Il dopo non è così che banalità, rientro nella normalità. Un vissuto che non vuole né riesce a fare laicamente i conti con la propria parzialità, anche con la presa d’atto dei propri limiti. Una dimensione che è complementare, funzionale e speculare, e perciò non opposta, a quel cocktail di scetticismo, qualunquismo, disinteresse, retorica che connota il rapporto con la politica, a cui quella “nostalgia dell’impegno” crede di opporsi. Una dimensione che si trascina fino ai nostri giorni. Un indicatore che dice che occuparsi di “Piazza Fontana” significa occuparsi di noi come siamo ora o ancora.

Fare i conti con rigore, e forse anche con spietatezza, comunque senza indulgenza, con il passato significa affrontare le vie impervie di una storia su cui molti dicono di volersi confrontare, ma che poi risulta un percorso disertato, più che un appuntamento disatteso. Come al solito e come per molte altre cose nessuno è innocente. A suo modo quel confronto mancato – che ovviamente non è solo, né prevalentemente storia giudiziaria – ricalca percorsi consueti del modo con cui in Italia abbiamo fatto, o meglio diciamo di aver fatto, i conti con la storia.

Torna utile quel percorso di ricostruzione che anni fà ha proposto Miguel Gotor quando ha riflettuto intorno alla vicenda del sequestro e poi dell’uccisione di Aldo Moro.

E’ sempre difficile fare la storia di un Paese quando la vicenda brucia e, soprattutto, quando non è maturato un rapporto “freddo” con il passato.

Uno storico, quando l’oggetto del suo studio è strettamente legato alla sua vita e ai suoi sentimenti, si giudica non per le sue passioni, ma se è in grado di portare documenti al tavolo del suo lavoro, se ciò che ricostruisce in forma critica e argomentata è suffragato e supportato con prove, se la sua ricostruzione consente di avere una dimensione più problematica, articolata e inquieta del passato o del contesto che si propone di indagare. Infine, se quella ricostruzione non lo assolve.

Perché è necessaria questa osservazione? Per due percorsi riflessivi che giudico essenziali e su cui vorrei concludere. Ci sono argomenti in storia che oggi obbligano a non fare finta e a misurare tutta la capacità dello storico contemporaneo di mettersi in gioco nel momento in cui scrive. Di farlo non in nome di una storia o di un passato da difendere, ma perché quel passato illumina anche un segmento rilevante del proprio mestiere di storico e del suo esercizio nella sfera pubblica. Non è un percorso impossibile si tratta di riflettere sulla storia né solo né prevalentemente in termini di eventi, ma di meccanismi mentali, di forme dell’agire che implicano una stretta coimplicazione con le forme del pensare, con l’immaginario che l’accompagna, con le molte letture, film, racconti, esperienze di vita, che ciascuno si porta dietro o che una generazione o un gruppo assume come propri, come fondanti della propria personalità.

Si poterebbe dire che questo è un percorso che astrattamente riguarda il mestiere dello storico, non solo in Italia. La dimensione di ex, in cui si fanno i conti con il proprio passato non è stata certamente inaugurata dalle vicende degli anni ’70 e non riguarda solo il caso italiano.

Ma c’è un aspetto strutturalmente italiano che riguarda la condizione di ex e che lo storico Mario Isnenghi ha proposto come chiave interpretativa generale della storia italiana. Ovvero la storia italiana come “storia di ex”, in altre parole “soggetti che hanno spezzato la loro vita in due, disfatti e rifatti, da catastrofi, abiure, conversioni e palingenesi (…) arcipelago degli ex come meccanismo costitutivo e originario nella storia dell’Italia unita”. Mi sembra un’ipotesi suggestiva, in ogni caso saliente in relazione al tema di queste pagine. Un processo che Isnenghi legge lungo l’intero percorso della storia italiana dal Risorgimento e poi nell’Italia liberale,nel fascismo , nell’Italia repubblicana, per arrivare fino all’89. Un percorso che divide orizzontalmente le famiglie tra genitori e figli; che ha alcuni anni canonici (1861,1922,1945,1989); che presenta procedure che si ripetono “regolarmente”.

La regolarità non consiste solo nel passaggio da una condizione all’altra, per cui “allorquando le barche invertono le rotte, ciò che era a destra ora lo si vede a sinistra” e viceversa, ma coinvolge anche gli spettatori, pur fermi sulle rive “che ora si voltano e tirano il collo di qua, mentre prima di là”. Soprattutto riguarda i protagonisti di una stagione che chiedono il diritto di parola in nome del “vissuto”, di una “autobiografia” che si fa canone, che si costruisce in memoria.

Dietro alla questione degli ex, tuttavia, non c’è solo una persistenza di figure c’è anche un modo di presumere di fare i conti, o di chiudere i conti con il passato.

E’ un processo che è già accaduto nella storia italiana nel passaggio intorno al 1945 e che un grande intellettuale come Carlo Dionisotti aveva descritto con estrema precisione in tempo reale.

“Muore qualcosa di più che il fascismo – scrive Dionisotti nell’inverno del 1945 – qualcosa più che una parte vile di noi. (…) C’è da commemorare l’Italia e da rifarla nuova. (…) Ma commemorare non è un facile processo di riesumazione fra ironica e pudibonda delle cronache più o meno occulte del passato, come non è la faconda esecrazione dei retori: non è compito di gazzette effimere e di accademie. E’ di partiti consapevoli di una loro missione politica e decisi a perseguirla seriamente, prendendo l’avvio dal riconoscimento dei loro propri errori. (..) Si desidera per ciò fare, un poco più d’impegno di raccoglimento e di silenzio, dai vivi nel bello italo regno, un poco più d’impegno del giudizio e dell’azione, e un’andatura meno affrettata e scomposta, perché l’escursione è lunga, e si parte che è notte”.

Dunque i conti col passato sono lunghi e soprattutto non consentono una fuoriuscita o una sottrazione di responsabilità.

Come allora sia andata sappiamo. Una stagione si è chiusa e  poi a lungo si è prodotta una storia che a un certo punto ha cessato di leggere il presente pensando che fosse sufficiente evocare un futuro senza costruirlo, convinti che l’indignazione, il senso dello scandalo fossero in grado, da soli, di rimettere a posto le cose in nome del “bon ton”. Una condizione  che nella storia italiana non ha mai costituito il terreno della trasformazione , bensì quello della modernizzazione autoritaria.

“Abbiamo in casa – scriverà Dionisotti anni dopo – un mucchio di questioni insolute, tutte nostre, che risolvere non si possono se non risalendo alle origini (..). Oggi come venti o trenta anni fa, potremo dissentire sui metodi e sugli obbiettivi di questa lotta politica: non possiamo dissentire sulla necessità della lotta e sulla opportunità di contribuire ad essa solidamente, fin dove la solidarietà regga, piuttosto che frazionatamene o, peggio, individualmente. Ma si tratta di saper bene quel che si vuole, quel che, oggi e domani, possiamo volere, essendo quel che siamo, alla stregua delle nostre forze. Chi crede ai miracoli, si accomodi”.

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Era il marzo 1964. L’accenno al miracolo non è casuale in un Paese che sperimenta per la prima volta le vacanze di massa, canta Sei diventata nera, e crede che la povertà non tornerà più. Non era così allora e non è così ora. Il nostro, ha scritto nel 1991 Mario Pirani, in un testo tanto sintetico quanto esemplare, ha già tutti gli elementi per essere un “approdo mancato” alla modernizzazione compiuta. In ogni caso, anche a prescindere dal dato sui flussi economici, resta il bisogno di fare i conti con la storia, laicamente. Quel bisogno è ancora lì, tutto davanti a noi, non soddisfatto.

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