Partiti e politici
Ponte Morandi, 5 anni fa. A che servono gli anniversari se dimentichiamo tutto?
Vi ricordate cosa stavate facendo cinque anni fa, il 14 agosto del 2018, quando arrivò la notizia del crollo del Ponte Morandi, a Genova? Vi ricordate che effetto vi fece? E che tempo vivevamo, allora, come individui appartenenti a una comunità, a uno stato, a una nazione?
Gli anniversari, dopotutto, servono anche a questo, a specchiarci nel tempo che ci ha fotografati, e in quello che abbiamo attraversato dopo. Servono prima, anzitutto, a ricordare chi morì ingiustamente, per l’incuria, la negligenza, l’ingordigia di alcuni. Servono a ricordare che si celebrano processi penale per stabilire i colpevoli. Servono a ricordare le parole al vento spese allora, quella della famiglia Benetton fatte filtrare ai giornali, quando spiegavano che erano pronti a lasciare tutto, schiacciati dal dolore, prima di uscire a caro prezzo (per la collettività) dalle concessioni autostradali. Servono, gli anniversari, a non dimenticare che quel che è successo può risuccedere, e che non sempre siamo solo un paese di furbi e incapaci, se un nuovo ponte già c’è, funziona, ed esiste grazie all’intelligenza e alle capacità di un sistema intero, che tiene insieme il decisore politico con professionisti e imprese capaci di eccellenze in ogni campo.
Ma poi, detto che a tutto questo serve primariamente un anniversario, c’è tutto il resto, e non è poco. Questi cinque anni sono in fondo l’arco costituzionale del possibile, nel tempo italiano che viviamo, e vale la pena rovesciare sul tavolo che celebra un lustro qualche fotogramma che ha a che fare con la tragedia nazionale di allora ma anche, soprattutto, col destino comune di oggi e domani.
Sembrano passati mille anni, e non cinque, da quando Luigi Di Maio e Matteo Salvini, i dioscuri populisti dell’appena insediato governo populista di Giuseppe Conte, entrano accolti tra gli applausi a Genova, dove si celebrarono i funerali di stato delle vittime della tragedia. Era appena nato il governo “gialloverde”, Di Maio si era appena ingoiato la richiesta di impeachment per Sergio Mattarella che non aveva voluto all’Economia l’euroscettico Paolo Savona, dietro l’angolo c’era l’abolizione della povertà grazie al reddito di cittadinanza. Che Salvini votò allora, per poi esserne tra gli abolitori di oggi. Quel Salvini che da ministro degli Interni passava il tempo a spiegare che il problema unico del paese erano i migranti e le Ong che li portavano. Esattamente un anno dopo, fu Salvini a rompere il giocattolo, sulle spiagge di Romagna, sperando di ottenere pieni poteri e finendo invece per consegnare poteri vigilati – ma non da lui, né dal suo partito – allo stesso Giuseppe Conte di cui prima, di cui sopra. Ancora non sappiamo, cosa saltò in testa a Matteo, sulla spiaggia del Papeete. Se davvero credeva alla parola dell’allora segretario del Pd Zingaretti – ve lo ricordate, sì? – che gli prometteva che si sarebbe opposto alla nascita di un nuovo governo. O se frastornato da mesi di polemiche per troppe visite troppo interessate alla Russia di Putin finì spaventato, e preferì togliersi dalle botte inventandosi una crisi di governo tra una cubista e un gin tonic. Chi lo sa. Gli anniversari servono a ricordare quel che vedemmo, difficilmente a scoprire quel che non abbiamo mai saputo.
Di certo, cinque anni fa non sapevamo né immaginavamo che un paio di tornate della storia più avanti avremmo sbattuto contro una pandemia mondiale. Il governo Conte nato coi 5 Stelle e il Pd, con Renzi nel ruolo di regista e propulsore prima e di sabotatore poi, scricchiolava, a inizio 2020, e l’ombra di Mario Draghi già si allungava sul paese, reincarnazione eterna di una élite poco appassionata alla democrazia, specularmente simile a un popolo sempre meno conscio della complessità delle cose della vita e dei saperi che servono a governarla. Solo che la storia soffiò molto forte, quella volta, fuori dal palazzo della politica, e mentre Conte sembrava scivolare verso una probabile crisi di fine inverno un battito d’ali di un pipistrello generò uno tsunami in tutto il mondo. In principio fu una provincia cinese, subito a ruota arrivò la Lombardia. A suo modo Agosto è un anniversario anche di quell’evento: la prima estate pandemica, quella del 2020, i rimproveri moraleggianti a chi andava in vacanza in Grecia – come chi scrive – perché non sosteneva abbastanza la ripresa italiana, oltre a mischiarsi con orde di portatori di virus. (Mai vista una Grecia così deserta splendida e sicura, mi fa piacere tenere il punto, anche tre anni dopo). Tutto in archivio, assieme alle montagne di autocertificazioni cartacee firmate e buttate negli scatoloni di aeroporti e stazioni, come gli adesivi con la scritta “Parlateci di Bibbiano” di qualche mese prima. Di Maio aveva detto che lui con quelli che “rubavano i bambini a Bibbiano” un governo non l’avrebbe mai fatto, ma nell’estate di tre anni fa ci governava già da un anno. Tutto in archivio, assieme ai bonus edilizi per la ripresa, gli aiuti a pioggia dati a un paese completamente nel panico, e a tutto il resto. Nel frattempo, in Europa si considera la pandemia come il dramma che diventa occasione di rilancio e di futuro. Di più coesione, di più investimento comune. È così che nasce il PNRR, un fiume e un mare pieni di miliardi, in parte stampati per essere regalati, in parte oggetto di prestito e ponte verso un destino di sempre maggiore integrazione europea. Una delle poche decisioni importanti prese davvero dall’Europa è frutto dell’emergenza, come se solo l’emergenza riuscisse a giustificare scelte epocali, per poi obbligare a perdonare le imprecisioni che ogni decisione emergenziale, necessariamente, porta con sé a ogni livello.
Dietro un altro angolo, al massimo due, ci sono sempre le cose che devono succedere, e prima o poi accadono. La caduta di Conte per mano di Renzi. L’arrivo di Draghi. La guerra di aggressione scatenata dalla Russia di Putin contro l’Ucraina. Nel frattempo, e proprio grazie a queste anse della storia, il processo di normalizzazione e omogeneizzazione della scena politica nazionale è sostanzialmente è compiuto. Ogni tanto qualche parlamentare leghista dice la sua cazzata, ma poi tutti votano il rinnovo delle forniture belliche a Kiev. Il Movimento 5 Stelle guidato da Conte salta sul bilico delle barricate adesso che è all’opposizione, ma tutti sappiamo che se dovesse tornare a governare mostrerà di nuovo la faccia mimetica e accondiscentemente trasformista che ha permesso al suo sconosciuto leader di diventare un riconosciuto leader. Meloni si è spostata verso il centro muovendosi di un paio di metri al giorno, e diremmo che oggi nel complesso sembra Andreotti, se non fosse che il vecchio Giulio era decisamente più filo-arabo.
Cinque anni dopo la tragedia di Genova, insomma, oltre al ricordo e al dolore di chi ha perso affetti, oltre allo sbigottimento di un paese intero se ancora qualcuno qualcosa ricorda, resta la sensazione che quel che serve per evitare altre tragedia non sia acquisito. Servirebbe infatti di sapere che ci vuole programmazione, pazienza, coraggio nello sfidare il breve termine del consenso per vivere il lungo termine del progetto. Vale per la democrazia, per l’ingegneria, per la sanità, e forse per paradosso se c’è una che sembra poter avere il tempo per pensarci questa è proprio Giorgia Meloni. Di certo l’ambizione non le manca, e se ben dosata anche questa è una risorsa. Passare alla storia come chi raddrizza l’Italia e getta basi di futuro non dovrebbe dispiacere a nessuno. Resta, è vero, infine, la sensazione di abitare una democrazia sempre meno decidente, sempre meno decisiva. Un posto, un tempo, nei quali per farsi votare i politici promettono le peggiori rivolte, e poi quando governano fanno i bravini, e finiscono per portare lo spread a testimonio della loro ubbidienza. Sono tra quanti pensano che la democrazia esista davvero quando esistono vere alternative nelle scelte, e davanti si danno differenti possibilità e destini. Non posso nascondermi, però, che ogni alternativa deve essere alla portata di comprensione e di gestione di chi la genera. Nel dubbio, dunque, e per il momento, mi accontenterei di una politica ipocrita e capace di gestire il gestibile. Se solo si ricordasse che gli anniversari servono per sistemare i ponti di un paese intero, non mi direi felice, ma insomma, nemmeno il suo contrario.
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