Partiti e politici
La legge elettorale fa schifo, ma anche noi elettori non siamo un granché
La palla della legge elettorale cade dove doveva cadere. In un terreno melmoso di regole istituzionali che somigliano molto – e non potrebbe essere diversamente – al tempo in cui viviamo. Il “Rosatellum” – e quando passerà la moda del latinorum sarà sempre troppo tardi – è un compromesso pasticciato, immagine riflessa di un paese che non sa scegliere, che esprime una classe dirigente politica frammentata e non all’altezza, e un’alternativa di protesta che per ora resta descritta dalla caricatura che mette in scena all’opposizione e dai fallimenti che mette a terra quando governa.
Così, a pochi mesi dal voto, ci avviamo alla peggiore campagna elettorale di sempre (lo diciamo ogni volta, e ogni volta ci prendiamo) con un sistema elettorale approvato forzando pesantemente la mano sul galateo istituzionale, e utilizzando la fiducia. Un sistema elettorale che per un terzo è maggioritario e per due terzi è proporizionale, un modello che non permette di disgiungere il voto di lista da quello di collegio e che, in caso di voto dato solo al candidato di collegio, viene di fatto ripartito proporzionalmente tra le liste che quel candidato sostengono. Un sistema che permette di correre negli improbabili collegi esteri (quando li aboliremo sarà un giorno di ragionevolezza, e quindi per definizione è lontano) anche a politici residenti in Italia. Un sistema che spinge sulle coalizione per spingere in un angolo l’unica forza radicalmente non coalizzabile. Un sistema, infine, che con ogni probabilità non garantirà nemmeno l’araba fenice della governabilità: l’idea che sia la legge elettorale a garantirla, comunque, è un mito ampiamente italiano, ma ci ritorneremo.
Più dei meccanismi, pessimi, messi al centro del sistema dalla legge elettorale, contano oggi, però, le radici profonde che portano a questo esito. Sono le stesse radici del prossimo futuro del nostro paese. Negli anni Novanta e fino agli anni duemila inoltrati il paese, politicamente, era spaccato in due, politicamente parlando. Berlusconi aveva svolto una sua funzione assurdamente e scleroticamente ordinatrice: aveva portato i fascisti a smettere di esserlo, e i leghisti secessionisti ad allearsi con loro per tramite di lui. Storia vecchia, la sappiamo tutti, ma immagine metaforica di un paese fatto per spaccarsi in mille pezzi, e capace di coagularsi attorno ai magneti più strani, ridisegnando la mappa dei rapporti tra antropologie votanti e interessi rappresentati dai votati. L’accozzaglia di cui oggi tutti berciano aveva, anche a sinistra, una storia lontana, raffigurata bene nell’ultimo tentativo prodiano, quello del 2006, vincente grazie al Porcellum e a un abbraccio inimmaginabile da Mastella fino ai trozkisti. Preistoria, non irrilevante per i sapiens sapiens (si fa per dire) che siamo oggi.
Di quel tempo restano le ceneri, le macerie, e un mare di tentativi di riforma, autoriforma, cambiamento, rottamazione, andati a vuoto. In un paese che da sempre arriva prima a interpretare il cambiamento epocale che ridisegna i rapporti tra élite e popolo, tra struttura e sovrastruttura, tra politica ed economia, arriviamo per primi anche stavolta a interpretare la nuova forma del populismo. È la storia del Movimento 5 Stelle, irriso come ai vecchi tempi dalle élite democratiche, e incapace di perdere consensi nonostante il disastro dell’amministrazione romana e le evidenti lacune culturali. A contendere quel voto rabbioso, incosciente, proletario e sfigato, in questi anni, è rimasto solo Salvini, e l’argine berlusconiano a tenersi il suo popolo di casalinghe. Renzi ci ha provato scimmiottando, vestendo l’agognato bisogno di una seria riforma costituzionale da arlecchinata per tagliare le poltrone. È finita, anche lì, come doveva.
Adesso ci troviamo qui, alla vigilia di una campagna elettorale in vista della quale un Pd a tante teste ha sacrificato all’altare della realpolitik la sua figura più credibile, quel Paolo Gentiolini che con stile silenzioso e sornione aveva, quantomeno, rimesso al centro della scena uno stile decente, pacato, paziente e capace di tessere prospettive sensate, non veloci, certo, ma nel tempo capaci di incidere sulla realtà. Questa almeno era la scommessa, la speranza. L’essere stato il principale attore della scena della fiducia su una legge elettorale brutta non aiuterà la tenuta dell’immagine e dell’immaginario dignitoso, se non nobile, che si era conquistato.
Tutto attorno ognuno recita il suo soggetto. Brunetta rivendica, per conto di Berlusconi, una giornata di pacificazione, dopo il 4 dicembre. Rivendica una vittoria e l’onore delle armi a chi è tornato a Canossa. Di Battista grida al fascismo. Ma certamente. I gruppuscoli a sinistra, freschi di un valzer di rotture e scissioni che ambiscono al Nobel della fisica, mentre non rilevano al momento per la politica, perché non rilevano per gli elettori, e non per colpa di questi ultimi. Sullo sfondo, mentre tutti han parlato per decenni di “governabilità”, resta la prospettiva di un governo fatto sommando tanti diversi pur di arrivare alla maggioranza. Che non sarebbe drammatico, basta pensare alla Germania, se solo fossimo tedeschi.
Gli elettori, cioè noi, le loro belle colpe le hanno tutte, tutti. Da anni si contentano – ci contentiamo – di un’offerta politica meno che pietosa, a livello nazionale. Seguono – seguiamo – ondate emotive indegne, ci accontentiamo di vedere rappresentate non le nostre idee, o almeno i nostri interessi, ma le nostre emozioni, le nostre simpatie o antipatie. Sono venticinque anni che odiamo i partiti e li disprezziamo, non con il disprezzo salutare e stimolante che gli riservava Marco Pannella, ma con quello autoassolutorio e vittimista di chi ha iniziato a essere antifascista il 25 Aprile verso sera. Gridiamo, insultiamo, ci lamentiamo. E poi ricominciamo ad arrangiarci, che partecipare – si sa – è lavoro. Noi ci lamentiamo e loro perpetuano se stessi. Per una classe politica del tutto separata dalla realtà, in fondo, siamo il popolo perfetto. Lo siamo stati, almeno, fin adesso. Gli anni che arrivano saranno ancora una volta anni di transizione, di crisi, di politica malcucita insieme, di leggi elettorali pessime, di partiti di governo rappresentati da classi dirigenti cooptate e di partiti di opposizione tragicamente improvvisate. Andremo avanti così all’infinito? Dipende davvero da noi.
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